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15-Pentecoste - Anno C

Pentecoste - Anno C

Gv. 14, 15-16; 23b-26

Le avventure dello Spirito

3 giugno 2001


La solennità di oggi rappresenta per gli apostoli il momento culminante di un processo, potremmo dire il traguardo di un cammino; ed è il paradigma del traguardo che anche noi dobbiamo raggiungere. Non è un traguardo posto alla fine della vita, ma relativo alla maturità di fede delle persone e delle comunità. È un traguardo che possiamo raggiungere in età diverse, secondo le circostanze, le esperienze, la fedeltà. La liturgia della Pentecoste perciò sollecita un esame di coscienza: a che punto siamo noi nel processo della maturazione di fede personale e comunitario?
Pentecoste è tuttora una festa ebraica. Il suo primo nome era Festa delle settimane perché cadeva sette settimane più un giorno cioè cinquanta giorni dopo la Pasqua. (Pentecoste’ infatti è un termine che deriva dal greco e significa ‘cinquantesimo’ sottinteso giorno)’. Nata come celebrazione delle primizie agricole, è diventata successivamente anche una festa storica: celebrava il dono della Legge e dell’Alleanza stabilita sul Sinai. I cristiani hanno aggiunto il ricordo di un altro evento storico: la discesa dello Spirito sulla prima comunità dei discepoli. Quindi in questa eucarestia è riassunto un vero processo, che noi possiamo prolungare considerando le varie tappe della storia della Chiesa, anzi della storia umana. Il processo continua ancora, l’umanità non è giunta ancora alla forma compiuta di perfezione. Nella prospettiva evolutiva non è più necessario distinguere tra doni naturali e soprannaturali: sono tutte perfezioni umane, che quando emergono rappresentano novità rispetto alle forme precedenti di vita.

Il cammino di rinnovamento degli apostoli.

Gli apostoli avevano seguito Gesù con prospettive molto diverse da quelle che avranno alla fine del percorso e di cui diventeranno testimoni. Non siamo in grado di ricostruire bene, gli ideali che li guidavano perché conosciamo solo la testimonianza successiva. Della prima fase abbiamo solo piccoli indizi: la resistenza posta alla predicazione di Gesù, il rimprovero di Pietro a Gesù quando si richiamava alla messianicità del Servo, il tradimento di Giuda, la fuga nei momenti decisivi della passione. Sono segni chiari della distanza tra gli ideali per cui hanno lasciato il loro lavoro e hanno cominciato a seguire Gesù e gli ideali che poi professeranno come testimoni del Vangelo.
Questa differenza ci consente di capire il cammino compiuto. Quando Gesù è morto ancora non erano diventati testimoni del Vangelo: attendevano solo il momento opportuno per tornare a casa e per mettere fine a quell’avventura terminata drammaticamente, contro tutte le loro aspettative. Per questo erano chiusi nel Cenacolo e avevano paura.
Poi è cominciata l’esperienza che abbiamo ricordato in queste sette settimane dalla Pasqua: In quei cinquanta giorni gli apostoli e i discepoli di Gesù hanno compiuto un’altra tappa del cammino di fede. Nel racconto di Giovanni non c’è il ricordo del periodo dalla Pasqua alla Pentecoste come momento decisivo del cammino di fede, perché il dono dello Spirito avviene il giorno stesso della Pasqua e quindi il rinnovamento è iniziato subito. Ma è cominciato appena. Luca sottolinea il momento in cui il loro cammino di fede è giunto ad un traguardo decisivo.
Potremmo dire che rappresenta la maturità personale della fede. Nel senso che non vivono più la fede per induzione dell’ambiente, per la vicinanza di Gesù, per le esperienze che stavano compiendo seguendo Gesù. La nuova esperienza aveva realizzato un’interiorizzazione delle sue parole e degli eventi vissuti: la memoria era diventata struttura della loro esistenza. Avevano interiorizzato così l’azione dello Spirito di Gesù, da essere in grado di camminare in modo autonomo. Autonomo non vuol dire indipendente dalle offerte altrui, vuol dire con la capacità del controllo delle proprie dinamiche. Non è un’indipendenza totale, perché noi dipendiamo sempre dalle testimonianze degli altri e dalle loro offerte di vita non diventiamo mai autosufficienti: diventiamo autonomi, nel senso che interiorizziamo in un modo personale, consapevole, libero, per cui non siamo più condizionati in modo determinante dalle circostanze in cui ci troviamo. Siamo in grado di andare a cercare anche altrove offerte di vita e siamo in grado di vivere situazioni di assenza, di carenza, di lontananza.
Gli apostoli e i discepoli di Gesù hanno cominciato proprio questa fase della lontananza. Gesù aveva detto: “E’ bene per voi che me ne vada, altrimenti non verrà lo Spirito” (Gv 16,7). Non è semplicemente una condizione esteriore. I discepoli non avrebbero potuto giungere a quella forma nuova di vita, di fede, di accoglienza dell’azione di Dio, se fossero rimasti dipendenti dalla presenza di Gesù. È una reale maturazione nella fede. La distanza li ha condotti a compiere un passo ulteriore. Può darsi che alcuni discepoli si siano dispersi, siano tornati alle loro case, al loro modo di pensare precedente e non abbiano più seguito la via di Gesù. In ogni caso, noi conosciamo l’avventura di quelli che hanno percorso la nuova tappa di fede.

Il nostro cammino fino alla maturità della fede e alla testimonianza.

È opportuno fermarci su questo punto, perché anche per noi esistono tappe nel cammino di fede e tutti siamo chiamati a diventare autonomi, ad essere cioè in grado di vivere tutte le situazioni nell’orizzonte della fede in modo personale, consapevole e nella libertà. Per cui non siamo più dipendenti dalle testimonianze di coloro che ci hanno educato sia perché siamo in grado di andare a cercare altrove i riferimenti di fede, sia soprattutto perché siamo capaci di vivere anche situazioni in cui c’è assenza momentanea di offerte vitali e di testimonianze di fede. Quelle situazioni radicalmente negative, nelle quali possiamo introdurre noi stessi l’azione di Dio, diventando suoi testimoni.
Questo è il momento in cui si raggiunge la maturità della fede, in cui si diventa testimoni, in cui cioè si è in grado di offrire indicazioni di vita ai fratelli e di “rendere ragione della speranza che portiamo nel cuore”, come scriveva Pietro nella sua I Lettera (3,14). Il rendere ragione non è semplicemente spiegare a parole, è mostrare con la vita. Questo è essenziale per la testimonianza.
Lo sottolineo perché negli ultimi secoli c’è stata una certa insistenza da parte delle nostre comunità – anche per l’influsso della cultura illuminista, che caratterizzava l’Occidente e in particolare l’Europa - sulla dottrina, sulle idee, pensando che siano un dato sufficiente. In realtà la testimonianza è qualcosa di più radicale: è l’ostensione della qualità di vita a cui lo Spirito conduce chi si apre in modo personale, e l’accoglie in modo autonomo.
Gesù, nel Vangelo di Giovanni che abbiamo letto, esprime questo momento di passaggio con una formula molto significativa: “Verremo e faremo dimora presso di lui”. Il termine dimora indica la continuità della presenza. La presenza implica un rapporto in atto, una relazione tra due persone. Prendere dimora da parte di Dio non consiste in una semplice sua azione ma richiede che il credente prenda coscienza della venuta e resti in questo orizzonte. Altrimenti non è dimora, ma residenza momentanea, passaggio. Perché ci sia dimora è necessaria la consapevolezza permanente della sua presenza. Questo stato è uno delle componenti fondamentali della vita spirituale: vivere alla presenza di Dio, essere consapevoli di una energia che alimenta in tutte le situazioni, positive o negative per cui siamo sempre in grado di crescere come figli di Dio.
È sempre necessario riflettere su ciò che viviamo e quindi adeguare le nostre formule, ma non basta. È necessario pervenire alla consapevolezza e vivere la presenza, così che si realizzi la preda di dimora: “Prenderemo dimora presso di lui”.
Quando Paolo ai cristiani di Corinto richiama la sua missione, scrive: “Quando venni tra voi, non mi presentai ad annunziarvi il mistero di Dio con l’eccellenza della parola o della sapienza…. perché la vostra fede non fosse fondata sulla sapienza umana ma sulla potenza di Dio” (1 Cor. 2, 1.8). La potenza di Dio non si mostra facendo miracoli, ma vivendo in modo da manifestare le qualità umana a cui lo Spirito conduce, la ricchezza di vita che la potenza di Dio fa fiorire in chi si affida a Lui. Per testimoniare la fede non si può bluffare, non si possono dire semplici parole o ripetere formule.
Questo vale in tutte le situazioni della vita, anche nelle relazioni di famiglia. Pensate la testimonianza che i genitori sono chiamati a dare ai figli, o i coniugi tra loro: devono a un certo momento diventare testimoni di Dio l’uno per l’altro. Non può essere all’inizio della vita matrimoniale, anche se di per sé è possibile; ma deve venire il momento in cui uno diventa testimone di Dio per l’altro. E così in ordine ai figli, agli amici… Diventa un cammino comune.
E’ significativo che la Pentecoste rappresenti l’inizio della testimonianza non dei singoli apostoli, ma della Chiesa. Potremmo dire che la testimonianza comunitaria della Chiesa è cominciata con la Pentecoste. Di per sé la Chiesa è cominciata prima, con la croce (cioè con la morte e la resurrezione di Cristo) o se volete ancora con l’elezione dei Dodici e la missione dei discepoli. Ancora però non era una comunità capace di testimonianza. Solo dopo questo cammino che viene riassunto da Luca nei cinquanta giorni che vanno dalla Pasqua alla Pentecoste la comunità dei discepoli diventa capace di testimoniare l’amore di Dio e la risurrezione di Cristo.
Sono numeri simbolici ma significativi, soprattutto per noi, che certo non possiamo in cinquanta giorni pervenire alla maturità di fede, ma in ogni caso prima della morte, o almeno nella morte, dovremmo giungere a essere capaci di un totale abbandono in Dio. Dico ‘almeno nella morte’ perché la morte ci chiederà di essere testimoni della vita, proprio lì mentre l’abbandoniamo. Non ci viene sottratta, perché se ci venisse semplicemente sottratta non saremmo testimoni di vita, ma saremmo testimoni della morte. Per essere testimoni di vita occorre che siamo noi ad offrirla fidandoci dell’azione di Dio e certi così della nostra identità definitiva di figli, da essere in grado di rinascere e fare il passo nella libertà consapevole.
Il cammino di fede che siamo chiamati a compiere, corrisponde quindi al tragitto dell’intera nostra esistenza.
La qualità di vita che costituisce la testimonianza ecclesiale lungo i secoli ha avuto caratteristiche molto diverse. È stata sempre orientata però a forme nuove di comunione tra gli uomini. Le lingue di fuoco su tutti i presenti e la capacità di parlare e comprendere linguaggi diversi sono simboli molto chiari in questo senso. Lungo la storia gli eventi che hanno sollecitato la testimonianza sono stati molto diversi: l’invasione dei barbari con le suddivisioni nuove della terra, le emigrazioni con gli incontri tra i diversi popoli, la formazione di nuove comunità, il monachesimo come tentativo laicale di creare nuovi stili di vita, ecc.. …
Oggi certamente è richiesta una forma nuova di testimonianza, dipendente dalle modalità della comunicazione, ai processi della globalizzazione, che richiedono qualità spirituali prima mai richieste agli uomini: l’emergenza cioè di quell’azione dello Spirito che può fiorire in qualità umane. Celebrare quindi la Pentecoste non è semplicemente ricordare un evento del passato: è vivere oggi un’esperienza di novità, consapevoli che ci sono qualità spirituali inedite che debbono essere accolte per attraversare questa stagione della storia. Pensate per esempio allo sconcerto che molte volte in questi tempi gli adulti esprimono nei confronti delle giovani generazioni, pensate alla violenza delle bande di fondamentalisti islamici o alle emigrazioni di coloro che fuggono dalle guerre e dalla fame. Si tratta di entrare nei processi storici e rendersi conto delle qualità spirituali richieste perché gli indizi dei mali sociali che questi eventi manifestano diventino criteri di conversione per noi. Non possiamo infatti pretendere che siano gli altri a convertirsi. Noi adulti dobbiamo manifestare le qualità nuove di vita, le forme di spiritualità che consentano alle nuove generazioni di inserirsi nei processi storici in modo armonico.
È un compito quindi che oggi come comunità ecclesiale ci viene affidato, per continuare l’avventura che cominciò quel giorno in un modo pubblico, comunitario; quando i discepoli, uniti in preghiera insieme a Maria, furono travolti da una forza nuova e vissero l’esperienza della prima Pentecoste cristiana. Era circa l’anno 30. Da allora sono passati molti secoli, ma l’avventura ancora continua e forse le novità più significative devono ancora venire.
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