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16-Trinità anno C

SS. Trinità – Anno C

Vivere alla presenza di Dio

Gv. 16, 12-15

10 giugno 2001


Le letture che abbiamo ascoltato, come le altre parti della liturgia odierna, hanno i verbi coniugati nei diversi tempi: passato, futuro e presente; anzi, spesso i tempi si intrecciano nello stesso periodo. Paolo ad es. scriveva: "La speranza (che è rivolta al futuro) poi non delude (nell’esercizio quotidiano di ogni giorno, quindi nel presente) perché l'amore di Dio è stato riversato (nel passato) nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato" (Rom 5,5). La ragione di questa varietà sta nel fatto che le formule trinitarie sono sorte per esprimere il rapporto con Dio vissuto nel tempo: in rapporto alla Parola che ci perviene dal passato, allo Spirito che attendiamo come novità continua dal futuro e all'Eterno che si affaccia al presente e rende possibile il nostro divenire figli, cioè il raggiungimento della nostra identità filiale, che è il traguardo definitivo della nostra esistenza.
Oggi non mi fermo ad illustrare questo aspetto della nostra vita spirituale mentre vorrei porre la domanda fondamentale del nostro rapporto con Dio e poi mostrare il collegamento con la struttura teologale della nostra esistenza, cioè la fede, la speranza e l'agape, che sono le tre modalità temporali del rapporto con Dio: “che è, che era e che viene” (Ap 1,8). Vedremo appunto la triade teologale che è stata fin dall'inizio la caratteristica specifica della spiritualità cristiana.

Il rapporto che viviamo con Dio.

Che cosa rappresenta Dio per noi?
Se noi qui presenti dovessimo rispondere a questa domanda, credo che daremmo risposte molto diverse gli uni dagli altri. Questa non è un'accusa ma l’indice di una ricchezza, perché l'azione di Dio è così densa e profonda che non può avere un'unica modalità di espressione. D'altra parte ciascuno di noi come figlio/a che cresce, è un'immagine irrepetibile della perfezione divina, quindi è comprensibile che ciascuno viva in un modo proprio il rapporto con Dio. Però spesso la diversità del rapporto dipende dalla sua imperfezione, dal fatto cioè che ci poniamo di fronte a un'immagine di Dio non corrispondente alla realtà e soprattutto non ne siamo consapevoli.
Dobbiamo poi tener conto di un altro fatto: che cioè come creature cominciamo la nostra esistenza nell'illusione e nell'ambiguità, e quindi nell'idolatria. Questa è una necessità: nelle prime fasi della nostra esistenza rincorriamo fantasmi, cioè poniamo la nostra ragione di vita, la nostra fiducia - e quindi esercitiamo la fede, attendiamo il dono di vita e vogliamo il bene - in riferimento a creature che non meritano la fiducia totale, non possono offrire vita e dalle quali non possiamo ricevere in modo compiuto quelle ricchezze eterne che ci fanno crescere come figli di Dio. Viviamo quindi gran parte della nostra esistenza nell'illusione e nell'idolatria.

La vera conversione: Dio al centro.

Il punto è riconoscere questa nostra condizione e giungere un giorno alla conversione. La vera conversione, quella fondamentale, forse non l'abbiamo ancora vissuta tutti. La vera conversione non è il passaggio dal peccato alla grazia o dalla disubbidienza all'osservanza della legge, dal disordine morale alla vita ordinata. Questa è il prodromo della conversione, la sala d’attesa: la vera conversione è scoprire Dio al centro dell’esistenza. È una conversione che avviene lungo il cammino, a volte solo verso la fine. È auspicabile che avvenga nella maturità, in modo da consentire la scoperta del grande valore che ha il rapporto con Dio, il significato profondo per lo sviluppo della dimensione spirituale.
Rendiamoci allora conto della nostra reale condizione chiedendoci che cosa significa Dio nella nostra vita. Quindi non solo in rapporto alle nostre qualità specifiche, alla nostra individualità spirituale, ma in rapporto alla nostra evoluzione, al nostro cammino di fede. Siamo giunti alla scoperta di Dio come centro?
Il criterio per rispondere non è la nostra vita morale, che può essere perfetta anche se non abbiamo ancora scoperto Dio come centro della vita, perché possiamo averlo incontrato solo come legislatore e avere scoperto i benefici dell'osservanza della legge.
C'erano al tempo di Gesù molti farisei che osservavano fedelmente la legge, ma Gesù li rimproverava. Ricordate il fariseo della parabola narrata nel Vangelo di Luca in contrapposizione al pubblicano salito come lui al tempio per pregare (18, 9-14). Non era un fariseo di fatto esistente, ma è stato descritto da Gesù come paradigma di molti suoi contemporanei. Il fariseo pregando ringraziava Dio per la fedeltà con cui egli aveva potuto osservare la legge nei minimi particolari, e ciò corrispondeva al vero, Gesù non lo contesta, eppure afferma che tornò a casa 'non giustificato’ a differenza del pubblicano, che aveva invocato la misericordia per il proprio peccato. Era andato al tempio, aveva pregato ringraziando Dio, aveva osservato tutta la legge, eppure era tornato a casa 'non giustificato', non benedetto da Dio.
Questo è il punto da prendere in considerazione per dare una valutazione della nostra salute spirituale, cioè per rispondere alla domanda: cosa di fatto Dio rappresenta nella nostra vita?
Perché Dio per noi può essere ancora solo il creatore o il legislatore, Colui che possiamo ringraziare per i doni che abbiamo ricevuto. Tutte cose giuste, ma questo non è ancora il Dio rivelato da Gesù. Certo è Dio, quindi non siamo fuori strada, ma non siamo ancora pervenuti al traguardo indicato da Gesù, a quella trasformazione che Gesù ha vissuto e che ha insegnato e indotto nei suoi donando lo Spirito Santo.
Oppure viviamo il rapporto con Dio nella paura. Anche questo atteggiamento è ancora molto diffuso, non solo nei ragazzi o nei bambini, secondo l’insegnamento che possono aver avuto, ma anche negli adulti. Non è il 'timor di Dio' di cui parlano la Scrittura e la Catechesi, cioè il riconoscimento della grandezza di Dio e della sua autorità. Ma è il timore angoscioso, l'ansia, la paura del castigo, che conduce ad interpretare le malattie, le disgrazie che ci capitano come punizioni di Dio per i nostri peccati. Sono reazione connesse ad alcuni meccanismi profondi che hanno caratterizzato le religioni primitive e che sono ancora presenti in molte persone, anche nell'ambito cristiano. Ma nella prospettiva del Vangelo di Cristo sono reazioni insensate, corrispondenti a un’immagine di Dio opposta a quella rivelata da Gesù: Gesù ci ha rivelato il Dio che offre gratuitamente misericordia e non chiede nulla, se non di accogliere il dono che egli offre. Quindi chi vive il rapporto con Dio con la paura del castigo o delle disgrazie non può giungere alla scoperta di quella gioia di cui parlava Gesù a proposito di coloro che conoscono e amano Dio.
Potremmo ancora continuare ad analizzare le diverse immagini di Dio che abbiamo, per esempio il Dio dei miracoli, il Dio degli esami o dei momenti di pericolo, che dovrebbe soddisfare tutti i nostri desideri, per cui lo preghiamo insistentemente per realizzare i nostri progetti, Ci sono tante immagini di Dio che forse si susseguono anche nella nostra vita, che caratterizzano alcuni periodi particolari della nostra esistenza, ma che non corrispondono al Dio rivelato da Gesù, per cui ancora possiamo dire di non essere pervenuti alla scoperta di Dio come centro della nostra vita.

La struttura teologale della vita del credente: Dio come ragione di vita.

Qual è allora il dato specifico del cristiano? Che cosa ci dovrebbe caratterizzare, se vivessimo il rapporto con Dio come ce l'ha insegnato Gesù? Quale dovrebbe essere il segno della scoperta di Dio nella nostra vita, secondo il modello di Gesù?
Il segno non sarebbe la perfezione morale, cioè non commettere più peccati o non avere più difetti. Ci sono difetti necessari alla nostra struttura personale, difetti che non potranno mai essere eliminati; l'importante è conoscerli, amarli e lasciarci completare dagli altri. Ma non è questo che caratterizza chi ha scoperto Dio.
Chi ha scoperto Dio è caratterizzato dalla struttura teologale, la sua esistenza cioè è impostata teologalmente. Egli vive il rapporto con Dio nelle tre dimensioni del tempo: accoglie la Parola che viene dal passato, attende lo Spirito che irrompe dal futuro e si abbandona alla fonte originaria della Vita in ogni istante presente: Dio diventa il centro della sua vita, Dio “colui che è, che era e che viene” (Ap. 1,8). Il che significa in termini cristiani vivere la fede, la speranza e l'agape, che sono appunto le tre virtù teologali; non intese in senso morale, cioè come semplici espressioni della nostra buona volontà, ma come l’emergenza in noi dell’azione divina.

La fede: per ‘fede’ intendiamo spesso l’accettazione della dottrina cristiana o la fedeltà alle leggi della Chiesa. Non è esatto. L’elemento costitutivo della fede non è dottrinale bensì vitale: “abbandonarsi fiduciosamente a Dio, prestando l’ossequio dell’intelletto e della volontà” (Concilio Vaticano II, Dei Verbum n. 5). La fede è vivere tutte le situazioni nell'ascolto della Parola che vi risuona, del messaggio di vita che ci trasmette. L'atteggiamento di fede è chiedersi: in questa situazione nella quale ora mi trovo quale messaggio di vita mi perviene, quale parola risuona per me? Occorre subito precisare che non tutte le situazioni corrispondono al volere di Dio, ma tutte possono essere vissute in modo da compiere il volere di Dio, cioè accogliere il suo dono e crescere come figlio/a. Per esempio: uno si ammala, oppure viene investito da una macchina, oppure ha un insuccesso in un'attività che svolge? Sono situazioni negative che non corrispondono al volere di Dio. Non è esatto il proverbio popolare: “non muove foglia che Dio non voglia”. Ci sono molte situazioni della storia contrarie al volere di Dio, ma nelle quali ugualmente possiamo sempre compiere il volere di Dio e chiederci: quale parola di vita mi perviene? Come posso vivere questa situazione in modo da crescere come figlio di Dio? In modo da rivelare l’amore di Dio? Comunicare la forza di vita ai fratelli che incontro?
Allora in tutte le situazioni vivere con fede significa: in questa circostanza positiva o negativa, corrispondente o contraria al volere di Dio, desiderata od opposta alle mie attese, come posso accogliere la parola di Dio e compierla? come posso crescere come figlio/a di Dio? Questo è vivere nella fede.

La speranza. Tutti noi quando svolgiamo un'attività, realizziamo progetti, attendiamo dei risultati. Siamo sempre in cammino, in processo e non possiamo vivere senza attendere. Dobbiamo giungere ad un compimento e non possiamo evitare l’attesa. Il problema è: che cosa attendiamo? La speranza teologale è: attendere Dio che viene, cioè quell'azione creatrice, quella forza di vita che noi non possiamo accogliere in un solo istante, per cui tutta la vita, anche se lunga, non ci è ancora sufficiente per accoglierla. C'è ancora da attendere Dio che viene nella nostra vita.
Se esaminiamo tutte le nostre attività, scopriamo che continuamente ci si presenta sempre qualche da attendere: il riconoscimento degli altri, la ricompensa, la gratificazione, l'approvazione dei superiori, la carriera, il benessere... tutte le cose legittime, ma non è Dio che viene. L’azione di Dio, quel dono di vita per cui possiamo crescere come figli/e lo possiamo attendere in tutte le situazioni, anche quelle negative.
Attendere Dio che viene è il segreto della speranza. Per questo diceva Paolo: "La speranza poi non delude, perché l'amore di Dio è stato effuso nei nostri cuori per mezzo dello Spirito che ci è stato dato" (Rom.5,5). Ma abbiamo realmente imparato ad esercitare la speranza teologale?

E infine l'agape, che è poi il coronamento di tutto il cammino, perché se Dio realmente diventa il centro e l'orizzonte costante della nostra vita, ogni gesto che compiamo diventa un servizio del Bene che si offre: lo accogliamo e in noi diventa dono per gli altri. Agape non è il semplice volere bene, ma accogliere e comunicare l’azione di Dio che in noi fiorisce come amore. L‘azione creatrice di Dio in noi è giunta (almeno per ora) a fare fiorire l’amore radicalmente oblativo e universale che è l’agape.
Quando perveniamo alla vita teologale continuiamo a compiere le stesse cose di prima, ma in modo nuovo. Se ci convertiamo realmente, come Gesù ci chiede, non cambiamo vita, non facciamo altre cose o non ci chiudiamo in un monastero, non rinunciamo a svolgere il nostro lavoro, il commercio, l'insegnamento o le altre attività. No, continuiamo a svolgere le stesse mansioni, solo che tutto cambia, pur continuando a fare quello abbiamo sempre fatto. Tutto cambia, perché, come diceva Paolo ad Atene, Dio diventa l'ambiente in cui noi “viviamo, ci muoviamo e esistiamo” (At. 17,28). Siamo continuamente sostenuti dalla sua parola, dalla sua presenza, dalla sua azione e tutto in noi si svolge alla sua presenza. Questo è il grande cambiamento, non sono cose impossibili. La vita è la stessa, ma cambia radicalmente.

Se Dio diventasse realmente il centro della nostra esistenza, scopriremmo qualcosa che non abbiamo mai scoperto, quello che Gesù indicava quando diceva: "Queste cose io vi dico perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena" (Gv. 15,11). Forse un giorno ci rammaricheremo, come diceva S. Agostino, di avere scoperto troppo tardi il segreto di Dio.
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