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20-XXVIIa Domenica del Tempo Ordinario – Anno C

XXVIIa Domenica del Tempo Ordinario – Anno C

Lc. 17, 5-10

Semplicemente servi

“Aumenta la nostra fede”.

Perché gli apostoli ad un certo momento avvertirono la necessità di invocare l’aumento della loro fede? Perché arrivò, per numerose circostanze, il momento in cui si resero conto della distanza enorme che esisteva tra loro e Gesù. Inizialmente erano compagni di uno stesso cammino. Gesù aveva conosciuto quattro di quelli che poi eleggerà suoi apostoli come discepoli di Giovanni. Erano tutti galilei: Gesù veniva da Nazareth, gli altri da Cafarnao. Si erano trovati insieme nel seguire Giovanni, nell’essere battezzati da lui, nell’essere coinvolti in quel movimento che aveva suscitato speranze e aveva risvegliato anche energie spirituali nel popolo ebraico. Poi Giovanni era stato imprigionato, Gesù aveva incominciato la sua attività personale e ad un certo momento aveva chiamato i compagni con cui aveva già condiviso ideali e vissuto esperienze di conversione, di rinnovamento spirituale. Avevano iniziato così il cammino allo stesso livello, con la consapevolezza di un cambiamento spirituale nella urgenza di rispondere a una sollecitazione dello Spirito di Dio. Gli inizi furono avvolti da un clima di entusiasmo e di gratuità: la gente accorreva numerosa, gli stessi suoi discepoli avevano ricevuto da Gesù il compito di annunciare il Regno di Dio e di curare gli ammalati, scacciando quelli che consideravano causa di molte malattie, i demoni. Certo, Gesù svolgeva un ruolo di leader, ma erano coinvolti tutti nella stessa avventura.

Però man mano che il cammino procedeva appariva sempre di più la distanza tra Gesù e i suoi discepoli: Gesù percorreva il cammino velocemente, pregava intensamente, operava dei distacchi dalla famiglia, dalle cose che possedeva, dal suo lavoro precedente, in modo radicale. Quello che Gesù proponeva come comunione di vita, come atteggiamento religioso, era molto difficile per i discepoli e non riuscivano a realizzarlo. La distanza aumentava sempre di più, al punto che ad un certo momento sembrò un abisso irrecuperabile. Quando Pietro prese in disparte Gesù per rimproverarlo (Mt.17,22), in fondo egli reagiva anche alle esigenze troppo radicali della sua proposta. Gesù aveva poi deciso di continuare il suo cammino, di andare avanti: aveva coinvolto Pietro, Giovanni e Giacomo nella sua preghiera, li aveva quasi introdotti all’interno del suo segreto, del modo come Egli viveva il rapporto con Dio. Ma gli apostoli avevano molte resistenze, non erano in grado di vivere secondo gli ideali proposti da Gesù..

In questo contesto riusciamo a capire i grido spontaneo, sincero, degli apostoli: “Aumenta la nostra fede!”.

Ora, anche noi ci troviamo in una condizione analoga: la storia della salvezza procede in modo accelerato, richiede decisioni di carattere sociale, scelte di condivisione e di fraternità. Ci scopriamo ogni giorno inadeguati a vivere gli atteggiamenti richiesti. Quante volte abbiamo scoperto che gli eventi della storia richiedono una purezza interiore e una capacità di risposte, che non siamo in grado di formulare. Siamo travolti dall’emozione davanti al male, proviamo una forte aggressività, ci sentiamo dalla parte dei giusti, di coloro che sono in grado di condannare gli altri. Avvertiamo che queste reazioni sono imperfette, esprimono quel residuo di egoismo, di ricerca di noi stessi, di presunzione, di superiorità che caratterizza la nostra esistenza.
Ci rendiamo conto che non siamo all’altezza del tempo che viviamo, cioè ci manca quella capacità di accoglienza dell’azione di Dio che in queste situazioni deve diventare profezia, annuncio di qualità nuove di vita, di un nuovo tipo di amore e di solidarietà. Non siamo in grado di far risuonare la Parola di Dio nella nostra vita. E ‘nostra’ vuol dire quella delle nostre famiglie, dei gruppi sociali, dei gruppi liturgici, delle varie comunità alle quali apparteniamo. Questi ambiti non sono tali da far risuonare la Parola di Dio. Che: vuol dire pensieri nuovi, nuove decisioni, nuovi traguardi di vita sociale.

Siamo inadeguati al tempo. Per questo il grido degli apostoli può diventare, se siamo sinceri con noi stessi, il grido della nostra preghiera. Sì, l’abbiamo già formulata, ma il problema è che diventi realmente il grido della nostra vita: "Aumenta la nostra fede!".

La fede è l’atteggiamento per cui fiduciosamente accogliamo l’azione di Dio, la sua Parola in noi. È l’ascolto-accoglienza, che sono poi gli atteggiamenti iniziali della nostra vita. Forse il primo senso che noi esercitiamo quando cominciamo a sviluppare la nostra realtà nell’utero della madre è proprio l’udito: non vediamo nulla, percepiamo la nostra realtà ascoltando il battito del cuore della madre, il flusso del sangue… Cominciamo con l’ascolto, per cui prima di tutto per noi è esercitare l’udito.
E d’altra parte questo corrisponde alla struttura fondamentale della nostra esistenza, perché prima di tutto è la Parola. Ma la Parola è dalla parte di Dio: dice Giovanni nel prologo, “all’inizio era la Parola” (Gv.1,1). Se all’inizio è la Parola da parte di Dio, per noi all’inizio è l’ascolto-accoglienza.

Questa è la fede la struttura iniziale della nostra esistenza: noi cominciamo ascoltando. Poi pian piano questo atteggiamento si sviluppa e giunge ad un certo momento ad essere ascolto di Dio, accoglienza di Dio. Non di Dio in sé, ma sempre del Dio creatura, cioè dell’azione di Dio che si esprime nelle creature, che diventa amore degli altri, stimolo di crescita che ci perviene da parte dei fratelli. Sempre come creatura, perché mai possiamo ascoltare Dio come Dio.
L’atteggiamento di fede, quindi, è un atteggiamento che si sviluppa dalle forme primordiali dell’ascolto del battito del cuore, dell’accoglienza delle offerte vitali, fino all’ascolto della chiamata definitiva nella morte, che è l’ascolto esercitato nel silenzio supremo, quando non resta nulla, se non l’azione di Dio che ci chiama al nostro eterno destino. L’atteggiamento di fede è quindi la struttura di fondo della nostra vita.

La fede però non resta sempre la stessa, perché, crescendo diventiamo accoglienti di cose nuove, di doni nuovi. A questo proposito è necessario chiarire un equivoco: spesso noi identifichiamo la fede con il pensiero, con la dottrina della fede, per cui crediamo che aumentare la fede voglia dire aderire con più fedeltà alle dottrine della Chiesa. E quando questo non avviene, perché crescendo sorgono dubbi, modifichiamo il nostro modo di pensare, crediamo che la nostra fede venga meno. Allora pensiamo che “Aumenta la nostra fede” si riferisca a questa dimensione, a questo cambiamento dei nostri pensieri. E' sbagliato, questo, completamente sbagliato, perché il cambiamento dei nostri pensieri è necessario perché la fede aumenti; infatti perché si sviluppi quell'atteggiamento di abbandono fiducioso i nostri pensieri non possono restare gli stessi, non possiamo pensare a Dio sempre allo stesso modo.
Comprendiamo quindi che ‘aumentare la fede’ non vuol dire mantenere sempre le stesse idee o sviluppare le stesse dottrine o aderire perfettamente a ciò che la tradizione ci trasmette. Quello che ci perviene dalla tradizione è infatti l’embrione, il seme che deve svilupparsi; ma gli sviluppi debbono avvenire secondo le nostre esperienze, gli incontri con gli altri, i confronti, l’utilizzazione di modelli nuovi della cultura e così via. L’aumento della fede avviene nella struttura di fondo del nostro rapporto con Dio, dell’accoglienza della sua azione e della sua parola. E’ questo che deve aumentare.
Quindi non occorre avere alcun timore dei confronti, dei dubbi di fede, perché fanno parte del nostro cammino. Quello che è importante è l’atteggiamento di fondo con cui noi viviamo le esperienze, tutte le esperienze, accogliendo una forza di vita che ci fa crescere. Saremo in grado di portare serenamente, armoniosamente, anche situazioni difficili, di incomprensione, di sfiducia degli altri, certi che una forza profonda ci può condurre al nostro eterno destino, alla identità di figli di Dio.
Questo è l’esercizio fondamentale della fede, per cui con consapevolezza oggi diciamo: “Aumenta la nostra fede!”. E tutta l’Eucarestia possiamo riassumerla in questo grido della nostra esistenza.

“Siamo servi inutili”.

Il secondo insegnamento che questa liturgia ci propone è connesso profondamente al primo, anche se probabilmente nello svolgimento della vita di Gesù i due insegnamenti sono stati dati in tempi diversi e forse in circostanze diverse. Il secondo insegnamento è riassunto nella formula: “Quando avrete fatto tutto questo dite: Siamo servi inutili, abbiamo fatto ciò che dovevamo fare”.
Il termine ‘inutili’ traduce una parola greca che è più complessa e ha diverse sfaccettature, che si riferiscono tutte alla nostra esperienza di creature.
La condizione di creature è complessa e non sempre è facile viverla. Essa implica tre dinamiche fondamentali: la consapevolezza che noi non siamo il principio della vita; che dobbiamo continuamente accoglierla; e che per interiorizzarla, dobbiamo imparare ad offrirla, a donarla.
Vediamo brevissimamente questi tre aspetti, perché dovrebbero caratterizzare la nostra vita spirituale.

Noi non siamo il principio.
Il primo aspetto è la consapevolezza che non siamo noi il principio, che noi non possiamo dominare la vita, non possiamo farla nostra e dire: “Ora sono”. L’inizio del cammino spirituale è proprio questa consapevolezza: “Io non sono”. Come Gesù quando dice: “Io non sono buono, nessuno è buono” (Mt.19,17), “Io non faccio nulla da me stesso, il Padre compie in me le sue opere” (Gv.14,10), “Le parole che io vi dico non sono mie” (Gv.14,24). Questo Gesù lo dice come uomo, nell’esperienza quotidiana. Questo è un dato della vita di Gesù che spesso trascuriamo.
Gesù era pervenuto a questa consapevolezza piena, noi ne siamo ancora molto distanti. Per questo gli apostoli poi dicevano: “Aumenta la nostra fede”: vedevano una lontananza radicale da Gesù! Loro discutevano chi era il più grande, Gesù rimproverava chi lo chiamava buono!
Acquistare questa consapevolezza che noi non siamo il principio è fondamentale, ma è un lavoro da fare, per il semplice motivo che l’inizio della nostra vita è caratterizzato dalla certezza che noi siamo il centro, che noi siamo tutto e gli altri sono al nostro servizio. Noi cominciamo così la vita: obbligando gli altri a mettersi al nostro servizio. Cominciamo così e non può essere altrimenti, però molte volte restiamo con questi atteggiamenti anche crescendo, man mano che andiamo avanti.

La vita è continuamente offerta e continuamente deve essere accolta.
Il secondo aspetto è la consapevolezza che la vita non ci è offerta una volta per tutte, ma continuamente ci viene offerta, quindi continuamente deve essere accolta. Allora si arriva a scoprire la fonte originaria della vita che ci viene offerta, dell’energia che ci avvolge, che ci perviene attraverso tutti gli altri. Così si comincia a vivere in modo autentico: scoprendo la fonte, riferendoci a Lui – a Lei, alla Madre, al Padre, al Principio... Dicendo ‘Dio’ diciamo con una cifra sola tutto questo senza poterlo dire adeguatamente.

Per interiorizzare la vita occorre donarla.
Secondo le nostre categorie di tipo quantitativo per avere le cose bisogna farle nostre, evitare che gli altri le possiedano, trattenerle per noi. Invece la vita è un dono completamente diverso, per farla nostra dobbiamo donarla, perché in se stessa è dono e non può essere trattenuta, ma deve essere consegnata. Per cui quando ci scopriamo chiamati a diventare figli, avvertiamo che la condizione necessaria per diventarlo è l’attitudine del servizio, la dinamica dell’offerta: mettersi a disposizione della vita perché fiorisca attorno a noi, negli altri che incontriamo.

Quindi la condizione di creatura implica l’apprendimento del servizio, dell’oblatività, dell’offerta. Questo come condizione assoluta, non come dovere morale che si aggiunge, come se Dio dicesse: “Ecco, adesso che sei diventato grande, mettiti a servizio degli altri”. No, per diventare grande mettiti a servizio degli altri.
Tutto questo è racchiuso nella parola ‘servi’: semplicemente servi, null’altro che servi. Disse un giorno Gesù agli apostoli, quando discutevano chi di loro fosse era il più grande: “Chi vuol diventare grande tra voi sarà servo” (Mt.20,26).
Nel termine utilizzato da Luca (17,10) c’è anche l’idea di insignificanza: le cose che facciamo non valgono per ciò che realizziamo, ma per la vita che fluisce. Per questo noi siamo insignificanti, inutili, in ordine a questo processo, perché non ci appartiene, è della Vita.
Tutto quello che compiamo è senza valore, se non contiene l’attitudine al dono. Vedete che è complesso il meccanismo del vivere come creatura. Non abbiamo le attitudini originarie per vivere con questi atteggiamenti, anzi, le attitudini originarie sono opposte: E dovremmo giungere invece alla morte con gli atteggiamenti della vita, cioè con questi atteggiamenti di abbandono fiducioso, di offerta radicale di tutto, per interiorizzare il dono e accoglierlo senza riserve in tutti gli istanti. Questo è il cammino della vita spirituale.

Allora credo che comprendiamo bene l’esigenza di ripetere quella invocazione: ”Signore, aumenta la nostra fede, perché ci è difficile vivere da creature, come figli tuoi. Aumenta, Signore, la nostra fede.
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