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23-XXXa Domenica del Tempo Ordinario – Anno C

XXXa Domenica del Tempo Ordinario – Anno C

Lc. 18, 9-14

La preghiera efficace: condizioni.


Inizio con un breve accenno alle due figure che Gesù presenta nel Vangelo odierno, quella del fariseo e quella del pubblicano, per comprendere bene l'insegnamento della parabola.
Vedete come le parole cambiano significato nell'uso: oggi il termine 'fariseo' in italiano ha un significato piuttosto negativo, mentre quando Gesù parlava era un termine molto positivo, perché indicava una persona esemplare, che osservava la legge fin nelle minime prescrizioni, un punto di riferimento per il cammino di tutti. Del resto la corrente farisaica era quella più vicina a Gesù, da un punto di vista dottrinale. A molti dei farisei Gesù rimproverava però un atteggiamento non corretto nella vita religiosa, come appare anche da questa parabola.
Invece 'pubblicano' era un termine decisamente negativo, perché i pubblicani erano quelli che, tradendo la fedeltà al proprio popolo, s'erano resi servi dei romani e raccoglievano le tasse per conto loro. Avevano la fama di essere anche ladri o almeno di approfittare della loro posizione per commettere soprusi, soprattutto nei confronti della gente più debole. Domenica prossima leggeremo l’episodio di Zaccheo, un capo dei pubblicani. Lo stesso Matteo, che diventerà poi apostolo di Gesù, era un pubblicano, chiamato da Gesù proprio durante il suo servizio. Quindi i pubblicani sono figure che nel Vangelo diventano positive per una conversione o un cambiamento di vita.

Il messaggio della parabola si riferisce alle condizioni perché la preghiera sia efficace. Continuiamo così la riflessione di domenica scorsa, quando abbiamo visto, partendo dalla parabola della vedova che va dal giudice, che cosa significa pregare sempre e restare in sintonia continua con la parola-azione di Dio che in noi risuona per farci crescere come figli suoi.
Ma raggiungere questa attitudine interiore richiede un lungo cammino, è necessario che si sviluppino in noi alcune condizioni fondamentali.


Riconoscere il male della nostra vita.

La prima condizione essenziale che questa parabola sottolinea è il riconoscimento del peccato, del male della propria vita. Non pensate semplicemente al riconoscimento del male del passato, perché questo è abbastanza facile: man mano che si va avanti nella vita appaiono con maggiore chiarezza i momenti negativi che possono essere richiamati con facilità e che costituiscono l'ambito della riconciliazione. Ma non è solo questo, è molto di più: è riconoscere il male attuale della propria esistenza.
Questa è una cosa molto difficile per noi. Per questo un Padre del deserto diceva: "Chi riconosce il proprio peccato è più grande di chi risuscita i morti", cioè è molto più difficile riconoscere il proprio male che risuscitare i morti. E' un'espressione paradossale, ma è indicativa di una reale difficoltà a riconoscere il male della nostra vita. Noi infatti facilmente lo attribuiamo agli altri. Da bambini lo facciamo istintivamente, convinti che siano stati altri. Man mano che andiamo avanti questo istinto resta e si esprime più volte. In realtà dovremmo essere consapevoli che nessun atto, anche buono da noi compiuto è perfetto: la perfezione sta alla fine del cammino.
Gli antichi avevano difficoltà ad ammetterlo, perché tutte le culture antiche avevano il mito di uno stato primitivo in cui gli uomini erano stati perfetti. Si pensava che tornando indietro, recuperando il proprio passato, si poteva raggiungere una perfezione che già ci era stata donata. Nella prospettiva attuale, di un cammino verso un compimento che non abbiamo ancora raggiunto, questa convinzione appare illusoria.
Noi sappiamo quindi che ogni nostro atto è imperfetto e inadeguato, ma non lo riconosciamo: per cui consideriamo ogni atto d'amore, ogni servizio prestato, come meriti cioè come diritti ad essere riconosciuti buoni. Il fariseo - Gesù lo delinea in modo esemplare - elenca le opere buone compiute: digiuna, paga le decime, segue tutte le prescrizioni, è fedele a sua moglie, è giusto nel rapporto con gli altri... Così si sente sicuro, al punto da ringraziare Dio di questa sua bontà: "Ti ringrazio perché io sono così".
L'inganno non sta nel fatto che non sia vero quello che dice, perché paga le decime, fa i digiuni, osserva le leggi, le prescrizioni morali, ma tutto ciò non è sufficiente per dichiararsi buoni e poter giudicare gli altri dall'alto: "Io non sono come gli altri uomini e neppure come questo pubblicano". Sotto questa valutazione c'è appunto la sicurezza della propria bontà: “io sono buono”.
Questo è l'errore fondamentale che spesso noi commettiamo. Se infatti facciamo l'elenco delle opere della nostra giornata, io credo che la maggioranza o la totalità sono buone. Ma questo non è sufficiente per essere buoni.
Ci sono molte ragioni per capire che non è sufficiente. Ne indico due.
La prima è che in realtà ogni atto da noi compiuto, anche quelli dove prevale il bene, contiene sempre elementi di male, di imperfezione, di egoismo, di ricerca di noi. A volte è anche preponderante. Questo dobbiamo darlo per scontato, perché non abbiamo raggiunto la perfezione, dato che la perfezione sta alla fine.
C'è un'altra ragione: le azioni da noi compiute esprimono una forza di vita più grande che non ci appartiene, che non è nostra, per cui anche il bene che facciamo non possiamo attribuirlo a noi, come se ne fossimo principio e fonte. Questa è una ragione radicale, è quella stessa ragione per cui Gesù non voleva essere chiamato buono, pur facendo molto bene. E questo lo diceva sinceramente, perché riconosceva che non faceva nulla da sé: "Perché mi chiami buono? Nessuno è buono. Io non sono buono, Dio solo è buono" (Mt.19,17). Questa consapevolezza solo raramente diventa una consapevolezza vitale, al punto che quando qualcuno dubita della nostra sincerità, del bene che facciamo, dell'attitudine interiore che abbiamo, noi restiamo male. E sono proprio le offese più profonde che avvertiamo, quelle che mettono in dubbio la nostra buona volontà, la nostra rettitudine interiore. Perché ci sentiamo noi buoni.
Quindi c'è un lavoro lungo da fare, ma molto importante per la vita spirituale, perché allora la preghiera diventa significativa, acquista il carattere di grido invocante la misericordia di Dio.
Da questa consapevolezza conseguono due attitudini fondamentali, che sono poi anche le condizioni per una preghiera efficace.

La misericordia nei confronti degli altri.
La prima è la misericordia nei confronti degli altri. A volte riconosciamo il male degli altri: c’è chi offende, chi trasgredisce una legge, chi appare egoista... Non possiamo negare il male che prende corpo e si manifesta attorno a noi. Ma quando ci incontriamo con il male la prima reazione che dovremmo avere è la misericordia. E’ l'atteggiamento opposto a quella del fariseo, il quale dà un giudizio: "Non sono come gli altri uomini e neppure come quel pubblicano". Questo è il giudizio di presunzione che tutti ci portiamo dentro. Ci mettiamo su un gradino superiore agli altri nelle nostre valutazioni e nei nostri giudizi. E quando non siamo riconosciuti restiamo male, siamo umiliati o abbiamo atteggiamenti di gelosia.

L’offerta di vita a chi compie il male.
La seconda attitudine positiva che ne consegue è l'offerta di vita per il fratello, per portare e redimere il suo male. Il che significa concretamente: operare con dinamiche opposte a quelle che egli ha messo in moto: se appare egoista esprimere generosità; se appare violento esprimere mansuetudine ecc. Appunto perché accogliendo la misericordia di Dio, cioè la sua forza di vita che in noi diventa dono per i fratelli, siamo in grado di comunicare novità di vita agli altri.


La solidarietà nel male.

Vi è una riflessione più ampia da fare riguardo la consapevolezza del male della nostra vita. Io ho fatto riferimento solo al livello individuale, ma è necessario aggiungere una valutazione sulla solidarietà nel male. Quando ci rendiamo conto del male il primo interrogativo che dovremmo porci, è: quale parte ho avuto nell’origine di questo male? Non c'è nessun male che emerga nella comunità, nella società in cui siamo da cui noi possiamo ritenerci completamente estranei.
Pensate alla dottrina del peccato originale come s'è sviluppata nei secoli. Non riguarda tanto il male compiuto agli inizi, ma qualcosa di molto più profondo: è il male che ci avvolge, il male che scaturisce continuamente. Perché quel tanto di male che ogni nostra azione contiene per la nostra incompiutezza si moltiplica, si intreccia con quello degli altri, si diffonde e scoppia in un modo più ampio in certe persone o situazioni, ma è un male che ci appartiene. Tutti in vari modi contribuiamo allo sviluppo del male.
In ogni caso fondamentale è rendersi conto che non possiamo dichiararci estranei al male che è nella nostra comunità, nella nostra società.
Il cammino della preghiera ci deve condurre a scoprire il male della nostra vita e la partecipazione che abbiamo nei confronti del male del mondo. Una comunità che vive in modo prevalente nella propria esistenza in atteggiamento contemplativo, cioè in sintonia continua con la parola-azione di Dio, il primo interrogativo che si pone quando scoppia il male nel mondo è: "Che parte ho io in questo male? Che contributo ho dato? Come ho vissuto io in modo che il male assumesse oggi questa forma così violenta?". E il secondo interrogativo è: "Come posso oggi accogliere l'azione di Dio in modo da redimere questo male? ".
Questa allora è il significa della preghiera "Abbi pietà di noi peccatori": è accogliere l'azione di Dio per esprimere amore dove c'è odio, forza di vita dove ci sono dinamiche di morte, volontà di giustizia dove c'è ricerca di interesse, di egoismo. Non perché siamo superiori agli altri,- ma perché siamo stati condotti dalla grazia a riconoscere che senza l'azione di Dio non possiamo far nulla.

La preghiera, quando è autentica, sviluppa questi atteggiamenti. Gesù lo dice con una formula chiarissima, a proposito del peccatore che invocava la misericordia di Dio: "Tornò a casa giustificato", cioè in un giusto rapporto con Dio, in sintonia con la sua parola-azione, a differenza del fariseo.
Chissà se questa sera di qualcuno di noi il Signore potrà dire: "E' tornato a casa giustificato"?
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