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10-IIa Domenica del Tempo Ordinario – Anno A

IIa Domenica del Tempo Ordinario – Anno A

Gv. 1, 29-34

L’agnello di Dio e la missione ecclesiale

Questa pagina del Vangelo di Giovanni è molto densa di simbologie, che però sono un po’ distanti dai nostri modelli abituali di pensiero e quindi rischiano di essere inefficaci. Permettete allora che li richiami brevemente, sapendo che finché non diventano vita, cioè non vengono interiorizzate in rapporto alle esperienze che noi compiamo, restano nozioni sfuggenti, si depositano in quella parte del nostro cervello dove sta la sede della memoria breve. Sapete che le nozioni, le esperienze che acquisiamo, in un primo momento vengono depositate in una sezione provvisoria della memoria; poi attraverso altre esperienze avviene la trasfusione nella memoria permanente. Questa è la ragione per la quale ogni tanto dobbiamo tornare sugli stessi temi, sperando però che non sia una semplice ripetizione, ma che sia il richiamo di esperienze che abbiamo continuato a compiere, per cui oggi le stesse formule acquistano nuove risonanze.

L’agnello di Dio.

Il simbolo centrale di questa pagina è l’agnello di Dio che toglie i peccati del mondo. Contiene due idee collegate tra di loro: una caratteristica di Gesù (‘agnello di Dio’) e una sua missione in ordine al peccato (‘toglie i peccati del mondo’).

Consideriamo prima l’aspetto cristologico, perché chiamandolo ‘agnello di Dio’ Giovanni indica una esperienza che Gesù sta compiendo, un’attività interiore che svolge nei confronti di Dio e degli altri.
Questa metafora noi la ripetiamo spesso, perché in ogni Messa noi diciamo ‘agnello di Dio’; e prima della comunione il sacerdote ripete la formula: “Ecco l’agnello di Dio, ecco colui che toglie i peccati del mondo”. È una formula così familiare che rischia di non avere più significato. E siccome è una metafora lontana dalla nostra cultura quotidiana, allora bisogna spiegarla.
La formula ‘agnello di Dio‘ ha almeno tre riferimenti principali alla cultura biblica:
- Il primo riferimento della formula è al Servo di Dio. Può sembrare strano, ma in aramaico la stessa parola indica servo e agnello. Inoltre Gesù ha vissuto la spiritualità messianica del servo. C’erano molti messianismi al tempo di Gesù: c’era un messianismo sacerdotale, un messianismo regale, un messianismo taumaturgico, un messianismo politico, secondo le diverse attese. Tutti aspettavano un Messia, ma diverso secondo i gruppi sociali. Gesù non ha scelto nessuno dei messianismi diffusi, ma ha fatto una scelta particolare. Nella preghiera ha maturato la decisione di continuare il cammino anche quando si è accorto che sarebbe stato rifiutato. Ha deciso di salire a Gerusalemme per annunciare anche là il Vangelo del Regno e la conversione. E’ stato in questo frangente che Gesù pian piano ha maturato la spiritualità del servo, sulla base della lettura del profeta Isaia.
Certamente il libro del profeta Isaia era molto caro a Gesù. Voi sapete che Luca nel capitolo 4 presenta l’inizio della sua vita pubblica attraverso la lettura, nella sinagoga, di un testo tratto dal capitolo 62 del libro di Isaia, che però risale a un profeta dell’esilio – il Deuteroisaia – vissuto due secoli dopo il grande profeta dell’VIII° secolo. Gesù lesse quel testo. Poi dopo cominciò a parlare appunto del servo: il figlio dell’uomo che è venuto per servire e dare la vita. Quindi certamente Gesù ha maturato questa sua decisione proprio in riferimento ai canti del servo.
Ora, nel quarto carme si parla del servo che “è stato trafitto per le nostre colpe, schiacciato per le nostre iniquità” (Is 53,5) “muto come un agnello condotto al macello” (Is 53,5). E il Quarto Evangelista riprende questa figura e qui, richiamando la testimonianza di Giovanni il Battista, ripete questa formula due volte nello stesso capitolo designando Gesù quale: “agnello di Dio” Gv 1, 29, 36).
Questo è un primo riferimento importante per capire la spiritualità di Gesù e la sua attitudine a portare il male degli altri.
Il secondo riferimento della metafora ‘agnello di Dio’ è l’agnello pasquale. Perché per Pasqua gli ebrei ancora oggi immolano un agnello per ricordare la cena celebrata in Egitto alla vigilia della liberazione. Con il sangue dell’agnello immolato avevano segnato gli stipiti della porta, quale segno e garanzia della liberazione. Rievocando quell’epopea nell’esilio rinnovavano l’impegno di tornare a Gerusalemme, come ogni anno fanno gli ebrei ancora oggi quando celebrano la Pasqua.
Gesù è morto nel periodo di Pasqua. Noi conosciamo con certezza poche date della vita di Gesù, ma questo lo sappiamo: che la sua morte è avvenuta nel giorno della parasceve di Pasqua (quasi sicuramente sappiamo anche la data della morte: il 7 aprile del 30). L’ultima cena celebrata è stato un momento molto importante ed è rimasta nella Chiesa. Noi, celebrando l’Eucarestia, facciamo memoria di quell’ultima cena pasquale della sua vita terrena.
Capite allora il valore che ha il riferimento all’agnello pasquale: segno della liberazione dalla schiavitù, ma per i cristiani appunto segno della salvezza che attraverso Gesù ci è pervenuta. La salvezza come liberazione dei peccati, perché ricordate che nell’Eucarestia, quando rinnoviamo appunto la memoria dell’ultima cena, si dice, ripetendo quelle parole di Gesù: “Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue che è versato per voi” (Lc 22, 20).
- Il terzo riferimento della metafora è all’espiazione dei peccati. La ‘nuova alleanza’ richiama infatti una formula del libro di Geremia in cui si diceva che Dio nella nuova alleanza “perdonerò la loro iniquità e non ricorderò più il loro peccato” (Ger. 31, 34). Noi lo diciamo continuamente con la formula di Matteo “versato per molti per il perdono dei peccati” (Mt 26,28).
Gli ebrei quando esisteva il tempio celebravano lo Yom Kippur, il giorno della purificazione (o della espiazione), nel quale sacrificavano un agnello. (Adesso non hanno più il tempio, quindi non hanno più il sacrificio, ma continuano a celebrare lo Yom Kippur, il giorno dell’espiazione). L’espiazione non è un’offerta fatta a Dio per avere la remissione dei peccati, ma è il dono di purificazione che Dio rinnova agli uomini attraverso il simbolo del sangue. Per gli ebrei il sangue era il luogo della vita e quindi dell’azione di Dio che conduce a vita. L’offerta di purificazione agli uomini Dio la compie perdonando i loro peccati, anzi, come dice Geremia, “dimenticando i loro peccati”. Noi non possiamo dimenticare i peccati - non siamo chiamati neppure a farlo, siamo chiamati a ricordarli nell’orizzonte della sua misericordia - ma in Geremia Dio dice: “Io perdonerò la loro iniquità e non ricorderò più il loro peccato” (Ger.31,34).
Nel Vangelo di Giovanni la prima espressione che Gesù ha utilizzato dopo la risurrezione ha riguardato precisamente il perdono dei peccati: “ricevete lo Spirito Santo: a chi rimetterete i peccati saranno rimessi” (Gv.20,22).
E noi questo continuiamo a celebrare l’eucarestia “per la remissione dei peccati”.

La realizzazione della missione di Gesù.

Come Gesù ha realizzato questa sua missione? L’ha realizzata immettendo spinte positive - vivendo l’amore dove c’era odio, esprimendo misericordia dove c’era peccato, esercitando mansuetudine dove c’era violenza - cioè annullando le spinte distruttiva del male. Questa è l’azione concreta, positiva, storica che Gesù ha fatto. Non ha dato qualcosa a Dio, ma ha introdotto nella storia spinte nuove, atteggiamenti inediti.
Gesù è l’agnello che porta o toglie i peccati del mondo non perché gli uomini non peccano più ma perché viene continuamente annullata la spinta disgregatrice, la forza di morte che viene diffusa. Se per esempio una persona ci odia, se noi amiamo annulliamo la forza distruttrice dell’odio. Di fronte alla violenza che c’è nel mondo, se ci sono gruppi, persone, popoli interi che vivono questa legge della salvezza ed esercitano nonviolenza, vivono una comunione più profonda, si raccolgono in preghiera insieme per esprimere un nuovo atteggiamento tra gli uomini, costoro annullano quella forza distruttrice che tende a propagarsi.
La preghiera serve ad annullare le spinte disgregatrici della storia, che ha prodotto divisioni tra i cristiani; e ne produrrà ancora, perché il cammino nella storia è un cammino di contrasti, di prospettive diverse che spesso si traducono in divisioni, incomprensioni. Per cui continuamente ci deve essere il recupero nell’unità.
Togliere le divisioni non vuol dire annullare le dinamiche disgregatrici, per cui non ci saranno più divisioni tra gli uomini: no, si annullano le divisioni di oggi, domani ne sorgeranno altre e ci saranno altre azioni di ricomposizione. Questo è il carattere fondamentale del nostro cammino nel tempo: non possiamo accogliere la perfezione in un solo istante e fissarla per sempre, dobbiamo accogliere la perfezione secondo il grado di interiorizzazione che abbiamo raggiunto. E le divisioni e i contrasti rendono possibile una nuova accoglienza del dono di Dio. Non è l’uniformità che caratterizza la nostra esistenza è un’unità di ricomposizione e quindi di crescita continua della vita. La vita fluisce e raggiunge nuovi traguardi di unità attraverso una ricomposizione.
Gesù ha vissuto in modo da annullare le spinte disgregatrici come allora si esercitavano nella sua vita, in modo da pervenire nella resurrezione alla forma definitiva, a quell’armonia compiuta che è la vita dei figli di Dio, a cui anche noi siamo stati chiamati.

La missione della Chiesa.

L’indicazione data da Gesù è molto concreta, è la missione affidata alla Chiesa. Anche noi siamo chiamati a portare il male del mondo come Gesù ha fatto, cioè ad accogliere così l’azione dello Spirito (come dice la conclusione del Vangelo che abbiamo letto) da testimoniare la salvezza che viene da Dio, quindi da annullare le spinte del male.
Oggi nel mondo, lo sappiamo, ci sono tante, tante situazioni di contrasto, di divisione, al punto che saremmo tentati di rinunciare: cosa possiamo fare? E poi ci sono le sofferenze immani di popoli interi. Sono tutti mali che sollecitano continuamente altri peccati, perché molti approfittano di queste situazioni per violenze o per la realizzazione dei propri egoismi.
Proprio per questo allora siamo chiamati, celebrando l’Eucarestia, a esprimere quella potenza che viene dall’azione di Dio in noi per annullare le spinte del male, per realizzare quindi forme nuove di solidarietà, di condivisione, di misericordia, di accoglienza, di dialogo.
È un cammino lungo, quello a cui siamo chiamati; noi non ne vedremo il traguardo, ma possiamo rendere possibile ogni giorno passi nuovi, nostri e dei nostri fratelli. Per questo ci raccogliamo continuamente intorno all’altare dell’Eucarestia per rinnovare il nostro impegno: l’alleanza, la nuova alleanza, l’accoglienza delle Spirito per la novità di vita e la remissione dei peccati.
Se manca questa disponibilità la nostra Eucarestia non è sacramento, cioè non esprime nulla della nostra vita, e quindi resta sterile, inefficace. E quante Eucarestie della nostra vita sono rimaste sterili e inefficaci! Questa che oggi celebriamo può rappresentare un segno nuovo di fedeltà per noi.

Chiediamo allora al Signore di renderci conto del male che attraversa la nostra vita e che attraversa il mondo degli uomini. Ma soprattutto chiediamo di rispondere anche noi come ha risposto Gesù alla chiamata del Padre. Abbiamo letto il salmo 39/40: “Allora ho detto Ecco, io vengo poiché di me sta scritto sul rotolo del libro per fare o Dio la tua volontà” e la lettera agli Ebrei applica proprio a Gesù quelle parole (Eb. 10,7). Anche noi oggi siamo chiamati a rispondere così alla chiamata di Dio: “Ecco, io vengo, Padre, per compiere la tua volontà, per annunciare il tuo amore misericordioso, il perdono dei peccati”.
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