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11-Terza Domenica del Tempo Ordinario – Anno A

Terza Domenica del Tempo Ordinario – Anno A

Mt. 4, 12-23

La chiamata per il Regno


E’ l’inizio della vita pubblica di Gesù, secondo il racconto di Matteo. La circostanza, indicata con chiarezza, è l’imprigionamento di Giovanni: Gesù decide la sua scelta proprio perché Giovanni viene imprigionato da Erode Antipa. Quindi indica una maturazione del compito che Gesù avvertiva; perché già aveva esercitato una certa attività, come discepolo di Giovanni, ma ora cambia stile: inizia ad annunciare il cambiamento, la conversione, che pure Giovanni chiedeva alla gente, secondo una sua sensibilità, un suo modo di vedere le cose.
La decisione di Gesù perciò matura all’interno di un processo storico: non è una scelta maturata solo nella riflessione personale e neppure una voce che improvvisamente cala dal cielo, ma fiorisce all’interno dei rapporti che Gesù aveva vissuto. E anche gli apostoli che chiama erano già suoi amici, li aveva conosciuti alla sequela di Giovanni. Altri saranno nuovi - come Matteo, un pubblicano che Gesù chiamerà - ma i primi quattro Gesù già li conosceva.
La decisione di Gesù è una risposta alla chiamata che aveva già avvertito in modo ben chiaro nell’esperienza del battesimo e che stava maturando: La scelta di Erode di imprigionare Giovanni stimola Gesù a prendere la sua decisione, quindi configura la chiamata che egli avvertiva.
Non tutto ancora è chiaro. Cioè non dobbiamo pensare che Gesù abbia avvertito la chiamata in un modo già definito, compiuto, con tutte le componenti che poi si esprimeranno nella storia. Per ora avverte l’esigenza di predicare.
C’era una certa graduatoria nei valori fondamentali della sua vita.
Prima di tutto era la preghiera, perché Gesù abbandona anche il suo stile quotidiano del lavoro proprio per dedicarsi alla preghiera. Certo, sempre aveva pregato, ma ora la preghiera acquisterà una funzione molto particolare.
Secondo valore era la predicazione, per cui rinunciava anche a svolgere la funzione di guaritore per dedicarsi alla predicazione. Ci sono diverse situazioni in cui questo appare, fin dall’inizio, come quando Marco racconta che una mattina erano andati a cercare Gesù, che era salito sul monte a pregare, per dirgli che la casa era circondata da ammalati che volevano essere guariti da lui. E Gesù dice: “No, andiamo altrove, io debbo predicare. Per questo infatti sono venuto” (Mc.1,38).
E poi c’era certo l’attenzione agli ultimi, agli ammalati, ai diseredati. Ma il suo aiuto era sempre condizionato alla conversione per il Regno e all’annuncio del Regno. Le guarigioni infatti erano sempre provvisorie - i guariti sarebbero morti ugualmente - mentre Gesù mirava alla vita eterna, cioè allo sviluppo della dimensione spirituale delle persone. Questa era la sua preoccupazione principale.

La chiamata degli apostoli.

Le stesse gradualità appaiono nella chiamata degli apostoli. Questi primi quattro, erano già suoi amici, conosciuti come discepoli del Battista, per cui all’invito di Gesù ‘subito’, lasciate le reti e il padre, lo seguirono. Questa prontezza non è un evento miracoloso. Anche loro avevano maturato una loro decisione: erano stati già discepoli di Giovanni, s’erano lasciati coinvolgere nella sua avventura, in questo movimento spirituale di un’esigenza più radicale di fedeltà alla legge, che pian piano avrebbe acquistato forme nuove.
Anche per gli apostoli non tutto era ben chiaro: subito lasciarono le reti e lo seguirono, ma per che cosa? A chi rispondevano? Con quale miraggio? Con quali ideali lasciarono tutto? Non dobbiamo pensare che fossero già ideali purificati, perfetti. Apparirà poi chiaro lungo il cammino che pensavano ad altro: pensavano al potere, pensavano al successo… Certo, pensavano anche a un riordinamento della vita religiosa e sociale del loro popolo, ma sempre visto nella loro prospettiva. E Gesù faticherà molto a far loro percorrere il cammino che egli percorrerà e a realizzare il cambiamento di prospettiva che egli stesso vivrà, per rispondere al Padre nelle diverse situazioni che si creeranno nella storia. Anzi, non ci riuscì pienamente prima della morte: solo dopo la resurrezione riuscirà a cambiare la loro mente, cioè a convertirli. Ma se non fosse cominciata la risposta allora, anche imperfetta e inadeguata, come sarebbero potuti pervenire a quella conversione definitiva o a quella testimonianza del martirio a cui tre di loro perverranno? Ma ci fu un lungo cammino prima di pervenire al traguardo della testimonianza.

La nostra chiamata.

Noi spesso colleghiamo la chiamata (o la ‘vocazione’, come spesso viene chiamata) alle missioni storiche che di fatto bene o male realizziamo: la maternità o la paternità, la professione, secondo le diverse attività che svolgiamo nella vita. Ed è vero, certo, che la chiamata riguarda anche le nostre attività, perché attraverso di esse rispondiamo alla chiamata definitiva a diventare figli cioè a raggiungere la nostra identità personale. Questa è la chiamata ultima, per cui tutto acquista un significato. Altrimenti noi saremmo tentati di dare valore supremo alle diverse attività che svolgiamo e quindi di considerare la nostra decisione solo in rapporto alla missione storica che dobbiamo compiere. Come se quella fosse la ragione della nostra vita.
Ecco, questo modo di pensare io credo sia fortemente ambiguo ed erroneo, perché nasconde la chiamata definitiva, la ragione vera della nostra vita. La ragione della nostra vita non è essere ingegneri o avvocati o portieri o preti o padri o madri. Queste, anche se sono cose che possono essere importantissime, non sono le ragioni vere: sono gli ambiti attraverso i quali raggiungiamo il traguardo della nostra vita, cioè rispondiamo alla chiamata definitiva, che è la chiamata ad acquisire il nome, ad essere per sempre figli di Dio. A quella chiamata noi stiamo rispondendo.
Questa distinzione dobbiamo sempre tenerla presente, per una ragione semplicissima: che le risposte alla chiamata storica possono per circostanze particolari fallire, cioè possiamo non realizzare il progetto che avevamo maturato in rapporto a quella attività. Possiamo fallire, ma con questo non veniamo meno necessariamente alla risposta che diamo per la vita. E viceversa: può darsi che riusciamo a rispondere in modo corretto o brillante alle chiamate storiche e non rispondiamo alla chiamata definitiva. Per cui dobbiamo sempre tenere presente l’orizzonte ultimo, nel rispondere alle singole chiamate.
Attenti però! Da questa distinzione non possiamo dedurre di poter trascurare le chiamate storiche. Perché è all’interno delle risposte storiche che noi rispondiamo alla grande chiamata della vita. Dobbiamo essere consapevoli di questa distinzione, per continuare a rispondere alla chiamata definitiva, anche quando potremmo accontentarci delle risposte storiche o anche quando esse diventano difficili o impossibili, perché falliamo nella nostra impresa. Per ragioni esterne, per circostanze particolari, per ingiustizie, per casualità o per errori possiamo fallire. Mentre siamo chiamati a non fallire nella risposta definitiva a diventare noi stessi.
Per questo non dobbiamo pretendere di sapere già all’inizio che cosa diventeremo, a che cosa siamo chiamati, qual è il nome, perché in realtà in modo compiuto quel nome lo ascolteremo solo nella morte. Solo allora saremo in grado di dire “Eccomi, io vengo o Padre. Di me è scritto sul rotolo del libro. Ecco, io vengo, Padre”. Ma questo vale anche per noi e noi lì, nella morte, saremo in grado di dirlo in modo compiuto e definitivo.
Ma lo potremo dire nella morte quando avremo imparato a dirlo quotidianamente nelle scelte che riguardano le attività storiche. Quando rispondiamo tenendo presente questo orizzonte, ogni giorno che passa diventiamo capaci di dire: “Eccomi, Padre, io vengo”. E potremo allora nella morte, ascoltando il nome che ci è riservato, rispondere consapevolmente.
Se invece lungo il nostro cammino non teniamo presente la chiamata definitiva e ci limitiamo semplicemente a rispondere alle persone che incontriamo o alle esigenze del lavoro che compiamo, anche se lo facciamo bene, rischiamo di trovarci, quando il lavoro finisce o quando il compito fallisce, incapaci di vivere, cioè non troviamo più ragioni di vita. Ma in realtà non è così, perché quello per cui siamo nati è diventare figli di Dio, diventare noi stessi, raggiungere la nostra identità.

Un’ultima breve osservazione. Richiamo la notazione fatta all’inizio a proposito di Gesù. Come la sua anche la nostra chiamata è fiorita all’interno di una storia. È necessario renderci conto che non rispondiamo semplicemente per noi stessi, ma insieme a tanti altri per consentire al Regno di venire, cioè per consentire all’azione di Dio di esprimersi. Perché attraverso le nostre risposte di ogni giorno il Regno di Dio viene.
Fino ad ora ho utilizzato formule individuali, perché è una prospettiva importante, ma non è l’unica, e non è neppure la principale, perché la principale è la prospettiva del Regno. Di fatto rispondendo alle singole situazioni con fedeltà per diventare figli, rendiamo possibile la venuta del Regno di Dio, cioè di una forma nuova di umanità, di rapporti inediti tra le persone, della giustizia, delle forme di pace che ancora non abbiamo realizzato, perché appunto l’umanità è in processo. Ma quella chiamata è la chiamata a formare un popolo. Le nostre risposte si intrecciano con tutte le risposte dei nostri fratelli. Sono risposte che dobbiamo formulare non solo all’interno del nostro studio o nella cella della nostra preghiera, ma nella piazza del nostro lavoro, nell’incontro con gli altri, nelle nostre città. Per questo ci raccogliamo insieme in preghiera: per imparare a rispondere coordinatamente. Ciascuno secondo le caratteristiche proprie, la propria sensibilità, il proprio lavoro, i propri impegni, ma coordinatamente, perché il Regno venga in mezzo a noi.
Allora quando avvertiamo che ci sono situazioni di ingiustizia profonda, quando ci accorgiamo che certe scelte contraddicono le esigenze del Regno, dobbiamo intensificare la nostra fedeltà e rinnovare insieme il nostro impegno per denunciare le ingiustizie e per coinvolgerci nei processi quotidiani di fedeltà all’azione di Dio, così da realizzare il fiorire di forme nuove di vita. In tale modo rispondiamo alla chiamata ultima che riguarda il Regno, la crescita dei figli di Dio. Perché da soli non possiamo diventare figli: solo nell’intreccio dei rapporti con gli altri, vivendo in un determinato ambiente sociale, acquistiamo la nostra identità e acquisiamo il nome di figli di Dio.

Chiediamo allora al Signore l’attenzione continua non solo a ciò che avviene nella nostra piccola storia, ma anche a ciò che avviene attorno nel mondo intero, per essere in grado, ogni volta che ci raccogliamo in preghiera, ogni giorno in cui ci fermiamo a riflettere, come faceva Gesù, per impostare la nostra giornata, di rispondere con fedeltà: “Ecco, io vengo, o Signore, per compiere il tuo volere”.
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