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01-I di Quaresima

Ia Domenica di Quaresima – Anno C

Lc. 4, 1-13

4 marzo 2001

Le tentazioni di Gesù lungo il cammino

Non dobbiamo pensare che questo brano del vangelo, che parla delle tentazioni subite da Gesù, sia la narrazione di ciò che Gesù ha vissuto nel deserto, perché Gesù nel deserto, dove era andato per pregare e per decidere, ha fatto altre esperienze. Questo racconto rappresenta invece una meditazione sulle tre tentazioni del popolo ebraico nel deserto: la tentazione del pane, quando volevano tornare in Egitto, perché lì almeno avevano il cibo assicurato; la tentazione di Dio a Massa e Meriba, quando misero alla prova Dio, per vedere se realmente voleva proteggerli e guidarli alla terra promessa; e infine la tentazione dell’idolatria, quando, tardando Mosè a scendere dal monte, pensarono di essere stati abbandonati e si costruirono il vitello d’oro come simbolo del Baal del luogo, cioè del Dio del luogo. Infatti in quel tempo pensavano ancora che esistessero più dei: anche se stavano per prendere l’impegno con Mosè di adorare e seguire solo il Dio dei Padri – il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe - quando erano in difficoltà ricorrevano anche ad altri dei. Capiterà più volte nella storia: anche Salomone costruirà templi per le proprie mogli, perché appunto riconoscevano la presenza degli altri dei.
Le tre tentazioni del popolo ebraico nel deserto vengono prese dunque come simbolo delle diverse difficoltà che Gesù ha incontrato lungo la sua vita nel compiere la sua missione messianica: la formula ‘figlio di Dio’ richiama appunto il messianismo di Gesù. Quindi non dovete pensare che Gesù sia stato portato su un monte altissimo o sul pinnacolo del tempio o che sia stato invitato a cambiare le pietre in pane: era la formulazione delle diverse difficoltà che Gesù poi avrebbe incontrato lungo il suo cammino.
Queste diverse tentazioni che Gesù ha subito lungo il cammino sono anticipate nel racconto del deserto, perché in quella situazione Gesù si trovò a decidere l’orientamento della sua vita. Aveva ricevuto il battesimo e avvertito la chiamata, quindi stava maturando la risposta. Ma quale risposta dare? Che tipo di messianismo scegliere? Quale attività svolgere? Rispondere alle esigenze della gente, che voleva la soluzione dei problemi economici, la guarigione dalle malattie, la sistemazione della società nella libertà, contro i romani che opprimevano il popolo? Gesù aveva un altro programma, però sapeva che la gente aspettava queste cose. Quindi si ritirò a riflettere e a pregare nel deserto per affrontare questi problemi, per dare un’impronta ben chiara alla sua scelta. Aveva fatto già piccole esperienze come discepolo di Giovanni e poi in un’attività successiva, ma ora stava maturando una scelta sua personale.
Se si tiene conto di questi elementi credo sarà facile capire il messaggio fondamentale di questa liturgia per noi, cioè il messaggio relativo alle nostre tentazioni.


Le nostre tentazioni e le illusioni nell’individuazione del bene.

Oggi siamo in grado di capire i meccanismi della nostra vita – i meccanismi psichici e anche quelli spirituali – in un modo più profondo, più ricco di quello che potevano capire nei secoli scorsi, perché abbiamo acquisito tanti elementi, soprattutto dalle scienze umane.
Nella concezione antica, in cui si pensava che le cose fossero state fatte già perfette, compiute, che la creatura cioè come tale non poteva desiderare o compiere il male; quindi il male non poteva venire che dal di fuori. Allora ogni volta che c’era una difficoltà gli uomini si chiedevano da dove venisse e guardavano fuori. Se per esempio c’era una malattia, non pensavano che era una disfunzione dei meccanismi biologici o anche psichici, ma pensavano che uno spirito cattivo dell’aria fosse entrato dentro la persona, oppure che questa subisse l’influsso negativo di uomini perversi. Quindi ricorrevano a rituali per rendersi amici gli esseri trascendenti o a delle formule di magia per allontanare il male che veniva dagli altri. Tutta l’antichità era retta da queste regole.
Da questa concezione si svilupparono poi tutte le dottrine del demonio, di una realtà maligna, o anche di un essere divino, che voleva il male per gli uomini, in opposizione al Dio trascendente, al Dio buono. Queste dottrine, molto poco presenti nella cultura biblica, erano molto influenti nelle culture dell’antichità precedenti quella biblica e hanno influito anche nel cristianesimo: la tentazione gnostica, nei primi secoli del cristianesimo, poggiava precisamente su queste concezioni dualiste. Per millenni l’umanità è vissuta secondo questi modelli, che sono radicati nelle culture e riemergono costantemente.
L’acquisizione nuova che cambia completamente il problema - e quindi anche la valutazione della tentazione - è che abbiamo in noi stessi la ragione del male che compiamo, perché siamo ancora imperfetti, non siamo ancora realizzati compiutamente secondo il progetto di Dio. Il male è allora un dato originario della nostra condizione, da cui la forza creatrice ci sta sollevando giorno dopo giorno, per condurci ad un compimento che avvertiamo come la ragione di tutto il nostro cammino, ma che raggiungiamo solo alla fine. La perfezione è quindi davanti a noi, non è alle nostre spalle: non c’è mai stata un’umanità perfetta, felice, armonizzata, nella pace.
E questo vale anche a livello personale: ciascuno di noi nasce incompiuto, come un groviglio di pulsioni, di tensioni interiori. Anche da un punto di vista puramente biologico, oggi gli scienziati mettono in luce questa incompiutezza: quando nasciamo ci sono gli elementi fondamentali per avviare il processo, ma poi le esperienze, gli incontri, le offerte di vita che riceviamo fanno parte del processo per giungere alla nostra identità, alla nostra compiutezza personale. Ciascuno di noi è il primo tentativo che la vita fa per assumere la forma che poi realizzerà in noi; quindi non c’è un progetto già definito di ciascuno di noi: noi siamo il modello di noi stessi, noi portiamo avanti il progetto che pian piano realizziamo.
Allora dobbiamo dare per scontato che non siamo in grado di volere perfettamente il bene, che lo vediamo in modo inadeguato, inquinato e non lo vediamo neppure nella sua pienezza: quello che si presenta come bene pensiamo sia per noi la risposta definitiva e invece non lo è.
Quando cominciamo a vivere consapevoli di questo fatto, cominciamo a prendere distanza dalle nostre pulsioni interiori, da ciò che avvertiamo come bene, che si presenta come risposta definitiva. Questo non significa che non dobbiamo coinvolgerci nelle situazioni e non dobbiamo affrontare le esperienze che ci stanno davanti, ma che le affrontiamo con la consapevolezza che ci consente, man mano che si sviluppano le esperienze, di individuarne l’illusione, l’inganno, l’insufficienza.
Certo, non è sempre facile, per questo sono necessari momenti di confronto, di dialogo, di riflessione su ciò che compiamo, momenti in cui lasciamo emergere i richiami che ci vengono dalla coscienza. Sono momenti essenziali, per noi. Più la tecnica avanza e l’umanità ha strumenti per operare, più sono necessari momenti di riflessione. La cultura antica offriva necessariamente spazi di silenzio, non c’erano tutti gli strumenti rumorosi che abbiamo oggi, ma questi spazi non erano così necessari come sono oggi. Gli strumenti che abbiamo noi sono così potenti, così veloci, che richiedono un’attenzione tutta particolare, che si acquisisce attraverso l’esperienza della riflessione, dell’analisi interiore, dei momenti di raccoglimento.


Il riferimento a Dio criterio per l’azione.

Ma c’è un altro dato, più importante ancora, che dobbiamo raccogliere dal racconto di oggi ed è il riferimento a Dio che continuamente Gesù fa nelle risposte alle tentazioni. Gesù richiama tre formule che nel Deuteronomio sono in riferimento alle tre tentazioni del popolo ebraico nel deserto e tutte e tre si richiamano all’azione di Dio in noi e nella storia.
E cosa vuol dire richiamarsi a Dio nella nostra vita? Vuol dire sapere che esiste un Bene grande, di fronte al quale tutti gli altri beni sono piccoli frammenti; che esiste una Verità compiuta, di fronte alla quale le nostre idee sono pallidi riflessi; che esiste una Giustizia integrale, di fronte alla quale i nostri progetti di condivisione e di fraternità appaiono piccoli sforzi inadeguati e insufficienti; che esiste una Vita piena, di fronte alla quale la nostra piccola esistenza appare un soffio che svanisce in un istante. Col termine ‘Dio’ questo indichiamo.
Ma non solo Dio è, ma diventa il criterio – nella sua totalità, nella sua pienezza – delle nostre azioni, perché noi tendiamo a diventare figli, cioè a diventare immagini sue. Il criterio perciò è la perfezione di Dio. Gesù diceva: “Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro che è nei cieli” (Mt. 5,48). Non voleva dire: “abbiate tutte le perfezioni”, ma “abbiate la pienezza nel vostro limite”. Per questo più noi cresciamo nella sensibilità spirituale, cioè nella consapevolezza dell’azione di Dio in noi, più avvertiamo il male e l’insufficienza delle cose e le illusioni delle tentazioni. C’è proprio una corrispondenza. Potremmo anche dire: più cresciamo come figli di Dio, più controlliamo tutte le dinamiche della nostra vita provvisoria, istintiva.
Per questo è essenziale per noi acquisire la sensibilità spirituale. Le generazioni giovani soffrono di questa mancanza, ma in fondo è la nostra generazione di adulti che è rimasta indietro e non è riuscita ad alimentare questa sensibilità – che poi è il senso della trascendenza, se vogliamo dirlo in modo laico. Non è sufficiente (e per certi versi non è neppure necessario) andare in chiesa, per questo, perché si può andare in chiesa, dire delle preghiere e non crescere nella consapevolezza dell’azione trascendente di Dio in noi, della presenza di un Bene immenso di fonte al quale le nostre scelte devono costantemente riferirsi, col quale quindi confrontarsi.
Per questo Gesù rimproverava spesso i farisei del loro modo di agire: erano le persone più osservanti, ma non avevano ancora sviluppato il senso della presenza del Bene assoluto, della Verità che ci trascende e davano invece valore assoluto alle loro azioni, ai loro pensieri. Come capita a noi, come capita a tutti coloro che inseguono fantasmi illusori, desideri che conducono alla rovina, alla morte. Le nostre difficoltà derivano precisamente da questa ottusità interiore, da questa che Gesù chiamava “durezza di cuore” (Mt. 19,8): l’incapacità di cogliere il trascendente nella nostra vita, l’azione di Dio nella nostra piccola storia.

Almeno la preghiera che oggi facciamo ci conduca a questo sviluppo interiore, ad affinare la nostra sensibilità - ad ‘aprire i nostri occhi’, per usare una metafora tradizionale – così da vedere l’illusione delle ombre. Quando la luce splende le ombre appaiono nel loro inganno, ma se la luce non c’è sembrano esseri viventi, risposte definitive.
Credo che ci sarà facile oggi, analizzando la nostra vita, individuare i momenti dell’illusione, i momenti cioè in cui abbiamo pensato di aver trovato nelle cose, nelle persone, nelle situazioni, la risposta che cercavamo. Fare memoria di questi momenti è molto importante, perché ci è concessa la grande grazia di poter recuperare quelle esperienze in senso positivo e salvifico.
Poter fare memoria salvifica di esperienze negative è una gioia immensa: è la gioia della conversione, della riconciliazione, di quella armonizzazione della persona che riesce ad un certo momento a fare di tutto il proprio passato un presente gioioso, una vita piena.

Chiediamo al Signore di realizzare in questa quaresima un cammino di riconciliazione: con noi stessi, verso un traguardo di armonia interiore; con gli altri, per costituire piccoli stimoli di pace nel mondo; e quindi con Dio, che è la ragione e il fondamento di questo nostro cammino.
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