Le icone della nostra parrocchia si rifanno allo stile bizantino e riprendono lo stile che era proprio anche della chiesa occidentale fino a tutto il primo millennio.
I quadri della “Natività”, della “Resurrezione” e della “Trinità Angelica” rimandano ai misteri principali della fede cristiana: Incarnazione, Morte e Resurrezione di Gesù vero uomo e vero Dio; Unità e Trinità di Dio.

L’ICONA DEL CRISTO CROCIFISSO


 

Nelle rappresentazioni iconografiche bizantine il Crocifisso non viene mai rappresentato nel suo realismo della carne spossata e morta né nell’agonia. Pur essendo morto, il Cristo non ha perduto nulla della sua regale e divina nobiltà. Infatti il Salvatore in croce non è semplicemente un Cristo morto, è il Kyrios, il Signore della propria morte e della vita. Egli non ha subito alcuna alterazione dal fatto della Passione: resta il Verbo, la Vita eterna che si consegna alla morte e la vince.
Pilato compose l’iscrizione e la fece porre sulla croce; vi era scritto: “Gesù il Nazareno, il re dei Giudei”. Giovanni ci dice che il Crocifisso è il Re dei Giudei, il Messia promesso, colui che difenderà gli umili del popolo. La sua non è la morte di un malfattore, ma la intronizzazione del Sovrano che è signore di se stesso e dispone della propria vita.
Questo cartello posto sulla croce era scritto in ebraico, in latino e in greco (Gv 19,20). Con questa notazione di universalità linguistica, Giovanni ci vuol dire che il Crocifisso è il Messia non solo dei Giudei, ma il Re-Salvatore del mondo intero. La sua missione universale, tradotta nelle lingue principali, deve essere conosciuta non solo dalle pecore del gregge di Israele, ma anche da altre pecore che non appartengono a questo popolo. La nuova comunità di cui il Crocifisso diventa Re non dovrà avere limiti di razza dal momento che “quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me” (Gv 12,32).
Tra le altre figure che il Crocifisso porta a compimento ci sono quelle del nuovo Tempio da cui sgorga l’acqua-Spirito fonte di ogni rigenerazione; il nuovo Adamo che nel sonno della morte genera la nuova Eva, la Chiesa-Sposa, madre fedele dei nuovi figli che rinascono dall’acqua e dallo Spirito; il Servo di Jahvè che si fa obbediente fino alla morte di croce; il Sommo sacerdote che offre se stesso in sacrificio sull’altare della croce; Giuseppe venduto dai fratelli al fine di ottenere un grande popolo ed, infine, l’Uomo levato in alto che attira a sé tutti in un atto universale di redenzione.

L’autrice dell’icona del nostro Crocefisso la ha realizzato attraverso una chiave interpretativa che parte dall’affermazione di Dio in Osea 2, 21:
Ti farò mia sposa per sempre,
ti farò mia sposa
nella giustizia e nel diritto,
nella benevolenza e nell’amore
Su questa chiave così descrive la sua opera: Dio, fin dalla creazione, ha scelto l’immagine nuziale per esprimere l’amore che nutre per il suo popolo in cammino. Tutto l’Antico Testamento è un cantico alle meraviglie di salvezza compiute da Dio per il popolo d’Israele, la sua sposa. Dopo averla liberata dalla schiavitù dell’Egitto, la guida nel difficile cammino nel deserto per donargli “una terra dove scorre latte e miele”; le invia i profeti, amici dello Sposo, per confermare la sua alleanza nonostante le infedeltà della sposa.
Nel nuovo Testamento Gesù, lo sposo incarnato, dona la sua stessa vita alla sposa, sigillando col suo sangue prezioso questo patto d’amore. La croce di Cristo è il talamo nuziale su cui ogni coppia di sposi deve stipulare le proprie nozze, come Gesù con la Chiesa. Quest’ultima infatti nasce ai piedi della croce, dal costato dello Sposo, “carne della sua carne,ossa delle sue ossa”, generata dal suo amore che è fedele ed eterno, e in virtù del quale viene guarita e risanata ogni infedeltà. Gesù in croce è dolcemente “addormentato”: come Dio trae da Adamo nel sonno Eva, la donna, così dal costato del nuovo Adamo nasce la Chiesa, la nuova Eva, che la tradizione indica in Maria, per questo raffigurata accanto a Gesù, dal lato del costato da cui zampillano acqua e sangue. Lo Spirito Santo scendendo nuovamente su di lei la riveste, insieme a Giovanni raffigurato alla destra di Cristo, della nuova missione di madre universale, di tutti i credenti. Maria che simbolicamente ha sul capo il velo da sposa, è colei che dobbiamo seguire per giungere a Gesù.

Ai piedi della croce, accanto al Golgota, è raffigurato il popolo di Dio, l’umanità assetata del suo amore, che si lascia bagnare dal suo sangue redentivo per essere al suo cospetto santa e immacolata, riscattata così dalla colpa del progenitore Adamo, a cui allude il teschio nell’antro scuro. La dimensione sponsale del dono di sé (simboleggiata dalla coppia centrale degli sposi che si tengono per mano), diviene l’essenziale dimensione della vocazione cristiana alla vita, necessario completamento della vocazione battesimale, qualunque sia la scelta di vita che il Signore ci chiama a compiere. Si spiega così la presenza accanto agli sposi di un vescovo, di un diacono, di un religioso e religiosa, di laici e fanciulli, tutti chiamati, in forza del battesimo, a essere testimoni profetici della Parola, sacerdoti che consacrano a Dio se stessi e la propria vita, animati da una carità responsabile e generosa. Ogni cristiano così è tassello del meraviglioso mosaico che è la Chiesa, chiamata a essere immagine viva della presenza di Cristo nel mondo.

Con la resurrezione di Gesù inizia il tempo delle nozze, in cui la Sposa attraverso tempi di prova e dolore, si prepara a celebrare in cielo le nozze eterne con il suo Sposo. Questo spiega la raffigurazione, nell’espansione superiore del braccio verticale della croce, della visione apocalittica della nuova Gerusalemme, che scende dal cielo, da Dio (simboleggiato dalla mano nella mandorla celeste), “pronta come una sposa adorna per il suo sposo”(Ap.21,2). La Gerusalemme celeste, la sposa dell’Agnello è raffigurata con le sue mura solide e splendenti (riflesso della gloria divina), con le dodici porte, gli angeli e i nomi delle dodici tribù d’Israele, chiaro riferimento anche ai dodici apostoli. Al centro il trono con il Libro della Vita aperto sulla scritta “Chi ha sete venga”(in riferimento ad Ap.21,6) e ai piedi l’Agnello, sono simboli di Cristo, nuovo tempio spirituale, in virtù della sua passione, morte e resurrezione. Cristo è la roccia sulla quale viene convocata, eletta, purificata ed edificata la sua sposa, la Chiesa, tramite la fecondità dell’acqua battesimale e del sangue eucaristico sacrificale, rappresentati dalle acque intorno al trono e dal costato aperto dell’Agnello. La Chiesa vive così tutta la bellezza e grandezza di questo mistero alla luce della promessa di Cristo risorto.”Ecco io sono con voi fino alla fine del mondo”( Mt.28,20).

Non abbiamo perciò nulla da temere se ogni giorno, “rivestiti” di Maria e sotto la guida materna della Chiesa, facciamo come san Pietro (dipinto al lato sinistro della croce) la nostra professione di fede “Tu sei il Cristo, il figlio del Dio vivente”, contempliamo come san Paolo (dipinto al lato destro) questo grande mistero d’amore e proclamiamo con gioia:

“A colui che siede sul trono e all’Agnello lode,onore,gioia e potenza, nei secoli dei secoli”(Ap. 5,13).

L’ICONA DELLA MADRE DI DIO GLICOFILUSA (dolcebaciante)


E’ una delle tipologie classiche delle icone mariane dette della Tenerezza che, colme di umano sentimento e d’amore, sono definite soprattutto dalla posizione guancia a guancia tra la Madre e il Bambino e che qui richiama la dolce e perfetta intimità tra Gesù bambino e Sua Madre.
Il manto rosso dice amore e partecipazione alla Redenzione operata da Cristo e i fregi dorati sul manto indicano sia la sua regalità che le grazie particolari di cui Maria è stata fatta oggetto. Sulla fronte e sulle spalle (ne è visibile solo una sulla spalla sinistra) tre stelle annunciano la Verginità di Maria prima, durante e dopo il parto. Lo sguardo della Vergine non è rivolto al Bambino, ma a colui che guarda l’icona per introdurlo all’incontro con il Cristo portatore della buona novella (il rotolo della Parola) con la medesima intimità, con lo stesso amore perfetto. Lei è la Mediatrice.
In assoluto le icone della Tenerezza esprimono l’aspetto umano della maternità divina e del Divino Infante; esse sottolineano con maggiore forza il fatto che l’umanità della Madre è anche quella del Figlio, da cui Ella è inseparabile per via del suo concepimento. Le icone della Tenerezza rappresentano la Madre profondamente sofferente per il supplizio che il figlio dovrà subire; Ella sopporta in silenzio questo avvenire ineluttabile che le è stato rivelato (“a te pure una spada trafiggerà l’anima”, Lc 2,35). Il Bambino è qui lo stesso Emmanuele delle icone del tipo Odigitria, vestito con un abito luminoso che ne indica la divinità. Ma rappresentandone i sentimenti umani – la paura, la sua tenerezza – attraverso i gesti l’icona ne sottolinea l’umanità. Si tratta di uno dei vertici della creazione artistica iconografica.
In queste icone la materna tenerezza della Madre di Dio è indissolubilmente legata al dolore straziante per il Figlio. Questa compassione materna per e con il Figlio, diventa compassione per e con tutte le creature, per le quali Egli si è volontariamente sacrificato. Questa compassione che conduce “a rassomigliare a Dio”, trasfigura l’aspetto più istintivo della natura umana, quello che la apparenta a tutta la creazione, la maternità. La relazione col divino trasforma la tenerezza materna in un amore e in una pietà che abbracciano l’intera creazione., il dolore causato da una perdita personale si trasforma in una compassione verso la miseria di tutto l’universo. Per questo la Madre di Dio è venerata come Gioia di tutta la creazione alla quale Ella è ontologicamente legata. E’ la gioia che dona la fede assicurata nell’intercessione materna del cuore misericordioso che non può sopportare la sofferenza patita dalle creature. L’immagine della madre che soffre per il Figlio crocifisso è l’espressione più completa di questo amore che tutto abbraccia e che non conosce altra legge che la pietà e la misericordia.
Questa profondità di contenuti, con tutta l’intimità e il calore umano che sono ad essa propri, priva le icone della Tenerezza di ogni sentimentalismo edulcorato che vada di pari passo con i sentimenti umani più ristretti ed individualistici, liberandole parimenti da ogni schematismo e astrazione. (da L.Uspenskij, V. Losskij – “Il senso delle icone” – Jaca Book 2008)

ICONA DEL CRISTO PANTOCRATORE

Nella veste di Pantocratore (dal greco pantocrator, governante di tutte le cose), Cristo è il principio ordinatore del reale, la sintesi degli elementi cosmici e delle coordinate spaziali, l’unità originaria di tutte le creature viventi; per i cristiani Egli ha potuto salvare il mondo perché esercita una sovranità universale fin dalla creazione del mondo, infatti la sua effigie è sviluppata con barba abbondante, capelli lunghi bipartiti sulla testa, immagine che conviene sia al Padre che al Figlio; il suo trionfo sulla morte rende manifesto il suo dominio universale.

Il Cristo Pantocratore è ritratto a figura intera o solo di busto, seduto in trono o astante, può essere rinchiuso in una mandorla oppure semplicemente avere un’aureola crociata dorata e cesellata. Nella nostra parrocchia abbiamo tutte e due le tipologie di Pantocratore: Con l’aspetto severo e gli occhi fissi sull’osservatore si indica che è l’Icona che guarda dentro il fedele, non il contrario, è il soggetto dell’icona che ha la luce.

Il Cristo Pantocratore regge con la sinistra un libro e con la destra esegue il gesto della mano parlante, gesto trasformatosi in atto di benedizione. Quando il libro (come nel caso delle nostre due icone) è chiuso con sigilli (in tal caso si tratta dell’Apocalisse) si raffigura il Signore che verrà a giudicare alla fine del mondo. Quando il libro è aperto, (in tal caso si tratta del Vangelo) vi troviamo delle iscrizioni che sono la voce stessa di Cristo, come “Ego sum lux mundi” (da Giovanni 8,12). Le lettere greche in alto a sinistra IC e a destra XC, rispettivamente indicano Iesus e Christos (C=S, in greco, X =CHI).

Analizzando il personaggio raffigurato si osserva che la mano destra in atto benedicente, sono mostrate 3 dita per indicare le tre Persone della Trinità (Padre Figlio e Spirito Santo) ed in particolare 2 dita si toccano a indicare le due nature: la natura umana e divina del Figlio. Nell’icona posta dietro l’altare, con il Cristo a mezzobusto, i colori delle vesti indicano le due nature del Figlio: il rosso scarlatto della tunica indica la natura divina (colore della tunica dell’imperatore romano che si proclamava dio), ricoperta dal mantello (imation) di colore blu-verde che indica l’umanità (la natura umana di Cristo riveste la sua natura divina). Nell’icona, posta sotto il leggio, con il Cristo a figura intera e posto dentro una mandorla di gloria i colori delle vesti giallo-oro indicano la natura gloriosa e regale del Cristo risorto.

L’ICONA DELLA GROTTA E IL BAMBINO

La Vergine dà alla luce l’Eterno.
La terra fornisce la spelonca a Colui che è inaccessibile.
Gli Angeli con i pastori cantano la gloria di Dio,
mentre i Magi seguono la guida della stella.
Per noi il Dio Eterno è nato tenero bambino.
(canto proprio della Liturgia Bizantina del natale del Signore nostro Gesù Cristo)

L’icona è ispirata al mosaico che si può ammirare nell’abside della basilica di Santa Maria Maggiore a Roma. Nella parte alta dell’icona, un fascio di luce che comprende in sé la stella che guida i Magi, scende come per illuminare l’oscurità della caverna che si apre nel centro della montagna. Al centro della montagna si apre la caverna oscura, la grotta del racconto di Luca, che qui si pone come un riferimento preciso alle fauci dell’abisso, degli Inferi (così come viene rappresentato anche nella icona della resurrezione). Infatti all’ingresso della grotta, centro dogmatico dell’icona, si trova la testa del bambino Gesù, sullo stesso asse di simmetria del fascio di luce. Il bambino è posto in una culla che sembra un sepolcro, avvolto in bende incrociate che rimandano alla sepoltura. il triangolo scuro della grotta, apertura tenebrosa delle viscere, è l’inferno. Il bambino coricato nelle tenebre è la discesa del Verbo agli inferi, “la luce splende nelle tenebre” (Gv 1,5). Per penetrare l’abisso il Cristo nasce all’ombra della morte. Egli è già l’uomo dei dolori di Isaia. Quelle stesse fasce che ora sono indicate dagli angeli ai pastori come un segno di riconoscimento del bambino divino, saranno l’unico segno del risorto per le donne, per Pietro e per Giovanni davanti al sepolcro vuoto. Tutto richiama ed indica la vittoria sulla morte e sugli inferi resa possibile dall’ incarnazione. La Madre di Dio

Fuori della grotta, in primo piano, è rappresentata la madre di Dio. La Madre, sfinita, poggia la testa sulla mano e ha lo sguardo perduto nella contemplazione del mistero. Non è rivolta verso il bambino, ma verso di noi: ci accoglie tutti e riconosce in noi la nascita del suo Figlio. Colei che ha generato il suo Creatore, rappresenta la nostra umanità. Il suo grembo è nello stesso asse di simmetria della stella e quindi del bambino, la sua maternità essendo divenuta maternità universale, in un atteggiamento di riflessione e contemplazione interiore dei misteri che stanno svolgendosi: “Maria, da parte sua, serbava tutte queste cose meditandole nel suo cuore” (Lc 2,19). A questi misteri che la coinvolgono si riferiscono le tre stelle che si scorgono sul manto regale che tutta la avvolge e la racchiude, simboli della sua verginità prima, durante e dopo il parto. I pastori

Un angelo e rivolto verso un pastore, infatti dice Luca: “vi erano in quella medesima regione dei pastori che pernottavano in mezzo ai campi per fare la guardia al proprio gregge. Or un angelo del signore apparve loro e la gloria del Signore li avvolse sicché furono presi da gran timore” (Lc 2, 6-7).
I pastori rappresentano “il popolo che camminava nelle tenebre e vide una gran luce”( Is 9,1) l’umanità che riceve l’annuncio dell’avvenimento salvifico, che credono e seguono l’angelo. Ad essi, come a noi, si rivolge lo sguardo materno e pensoso di Maria. Il bue e l’asino

Nell’icona sono presenti anche degli elementi che non si trovano direttamente nei Vangeli dell’infanzia ma che provengono dai racconti dei Vangeli apocrifi, molto popolari nell’antichità, da cui gli iconografi hanno attinto largamente – senza mai snaturare il messaggio evangelico – tutto ciò che serviva a sottolinearlo e a renderlo più evidente e comprensibile. Il bue e l’asino, per esempio, che non sono citati nei Vangeli, devono la loro presenza alla tradizione del Vangelo dello Pseudo Matteo. Secondo gli autori cristiani raffigurano la parola del profeta Isaia: “Il bue conosce il suo proprietario e l’asino la greppia del suo padrone; Israele invece, non comprende, il mio popolo non ha senno” ( Is 1,5) e simboleggiano quindi i Gentili. E’ interessante osservare come il bambino posto nella mangiatoia per l’asino ed il bue raffigura l’Agnello Eucaristico, come cibo per i nuovi uomini (i gentili ed i greci simboleggiati dai due animali) – anch’egli “fattosi alimento” per la salvezza degli uomini. San Giuseppe

Nella parte inferiore si trova San Giuseppe rinchiuso anch’esso nel mantello dei propri pensieri, nel suo umanissimo dubbio di fronte al mistero. I vangeli apocrifi si dilungano dettagliatamente sui dubbi e sulle reazioni incredule di Giuseppe davanti al concepimento di Maria, e anche il Vangelo di Matteo lo dipinge mentre è in preda all’incertezza “Giuseppe suo sposo, che era giusto e non voleva ripudiarla, decise di licenziarla in segreto” (Mt 1,19) Giuseppe, dunque, è l’uomo che si interroga davanti al mistero.

L’ICONA DELLA RESURREZIONE

Cristo è risorto dai morti
e con la morte ha distrutto la morte
e a coloroche giacevano nelle tombe
ha dato il dono della vita

(tropario della Resurrezione, liturgia bizantina)

Secondo la tradizione antica, il Risorto è sceso nel Regno dei morti per liberarli e condurli al suo Regno di Vita, come si canta nell’Inno ortodosso del Sabato Santo: “Tu sei disceso sulla terra per salvare Adamo, ma non trovandolo sulla terra sei andato a cercarlo negli Inferi”. Questa icona non illustra una pagina biblica, ma esprime con un’immagine il significato universale della salvezza realizzata da Cristo.
Alcuni testi del vangelo parlavano infatti del cosiddetto “segno di Giona” (cfr. Matteo 12, 38-40), in riferimento al fatto che Giona fu inghiottito dal pesce e rimase tre giorni negli abissi; questa vicenda simbolica dell’Antico Testamento veniva collocata dagli autori ispirati nella prospettiva della Morte e Risurrezione di Gesù. Per questa ragione, in molte icone della Discesa agli Inferi si vede l’ingresso dell’inferno raffigurato come una enorme bocca spalancata di un mostro marino.

CRISTO RISORTO – Al centro della scena sta il Signore Gesù glorioso che giunge negli Inferi, raffigurati come un abisso (si notino le montagne a destra ed a sinistra in alto): è vestito di uno splendido manto, svolazzante, per rappresentare il dinamismo della discesa ed è raffigurato mentre porta con sé la Croce come uno scettro. Un antico inno della Chiesa Ortodossa canta così: “Chi rimette i debiti a tutti gli uomini, volendo perdonare le antiche offese, spontaneamente venne presso i disertori della sua grazia e, lacerato il chirografo del peccato, guida tutti alla cognizione divina, illuminando le menti di splendore”. Gesù lo vediamo discendere per poi ascendere e portare con sé i prigionieri (cfr. Efesini 4, 8-10); egli appare come vincitore, come liberatore di tutti coloro che “stavano nelle tenebre e nell’ombra di morte”.

LE PORTE DEGLI INFERI – Sotto i piedi di Cristo, ci sono le porte infernali, divelte e rovesciate in forma di croce. Tutto attorno vediamo chiodi, cardini, catene, pezzi di ferraglia, poiché Cristo ha veramente sconquassato l’inferno, ha abbattuto le sue porte! C’è un evidente riferimento alle parole del Salmo 23: “Apritevi porte eterne, ed avanzi il Re della Gloria! Chi è questo Re della gloria? Il Signore forte e potente, il Signore potente in battaglia!”. Così pure, viene richiamata anche la citazione di Paolo di I Corinti 15, 25-27 “Bisogna infatti che egli regni finché non abbia posto tutti i nemici sotto i suoi piedi. L’ultimo nemico ad essere annientato sarà la morte, perché ogni cosa ha posto sotto i suoi piedi”. Sì, con il suo balzo vigoroso, il Risorto si è levato dal sepolcro e nulla ha più potuto fermarlo. Nell’abisso oscuro e senza fondo è riecheggiato il suo grido di vittoria, e con la sua forza ha sconfitto il regno della morte.

In questo abisso si trovano (a sinistra) tutti coloro che erano morti prima della Pasqua: ecco dunque che l’umanità intera, rappresentata da Adamo, viene presa per mano per essere tratta fuori e liberata dalla morte! l’Uomo Nuovo, è venuto a cercare il Primo Uomo, per caricarselo sulle spalle come la pecorella smarrita. Adamo stendendo la mano verso l’albero aveva peccato; ora Cristo, stendendo le braccia sull’albero della Croce ha portato la salvezza per lui e per l’intero genere umano. Ecco perché, vestita di rosso, vediamo anche Eva, la madre di tutti i viventi; ha le mani coperte nel tipico gesto liturgico orientale dell’adorazione. Subito dietro ad Adamo si riconoscono Mosè, che con le mani regge le tavole della Legge e il Profeta Elia: la Legge (Torah) e i Profeti.L’annuncio dei profeti si è avverato in Gesù.

Sulla destra dell’icona vediamo altri quattro personaggi: Pietro, Paolo, Francesco, Maria Maddalena de’ Pazzi che contemplano il Cristo risorto.
Quel filo conduttore che viene da lontano (Adamo ed Eva) e si protende senza interrompersi fino alla Pasqua di Gesù, mostra che la storia di Israele (Mosè ed Elia, la Legge e i Profeti) doveva approdare a Cristo, che adesso da lui riparte per raggiungere attraverso i suoi discepoli (Pietro, Paolo, Francesco, Maria Maddalena de’ Pazzi) gli uomini di tutti i tempi.

Primo e nuovo testamento sono un’unica storia di salvezza con un unico centro vitale: LA MORTE E LA RESURREZIONE DI GESU’.
E’ grazie a questa certezza che la notte di Pasqua possiamo salutarci l’un l’altro con il grido: CRISTO E’ RISORTO! E rispondere con gioia: SI. E’ VERAMENTE RISORTO! Christos anesti. Alithos anesti.

GENERALE – Il Cristo ha vinto la densa oscurità e si è rivelato come “Luce che illumina coloro che stavano nelle tenebre e nell’ombra di morte”: ormai la grazia che raggiunge ogni uomo. Questo è l’evento che celebriamo nella Pasqua, ed il Battesimo rende attuale con le parole, i gesti ed i segni della Liturgia questa chiamata a morire con Cristo per risorgere con lui: l’immersione nell’acqua, simbolo della sepoltura, apre il credente a “ri-sorgere” a vita nuova con il suo Signore, la vita dei figli di Dio. Come affermava san Giovanni Damasceno: “Purifichiamo i nostri sensi e contempleremo la luce inaccessibile della Risurrezione, il Cristo sfolgorante”. Questa icona è come un sacramento che rende presente all’assemblea e le permette di celebrare il Mistero Pasquale di Cristo! E tutti i fedeli sanno di poter entrare col Signore nella sua gloria; si sentono invitati alla sua festa. Tutti, primi ed ultimi, possono partecipare alla gioia per la vittoria sul male e sulla morte! Tutti di fronte a questa icona pasquale comprendono il significato delle antiche profezie: “Il popolo che camminava nelle tenebre vide una grande luce; su coloro che abitavano in terra tenebrosa una luce rifulse” (Isaia 9,1). Tutti possono dire con le parole dell’apostolo: “Dov’è, o morte, la tua vittoria? Dov’è, o morte, il tuo pungiglione? Il pungiglione della morte è il peccato e la forza del peccato è la legge. Siano rese grazie a Dio che ci dà la vittoria per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo!” (cfr. I Corinti 15, 55-57).

L’ICONA DELLA SS.TRINITA’ 

Venite, popoli, adoriamo la divinità in tre persone:
il PADRE nel FIGLIO con lo SPIRITO SANTO.
Perché il Padre da tutta l’eternità
genera un figlio coeterno e co-regnante,
e lo Spirito Santo è nel Padre, glorificato con il Figlio,
Potenza Unica, Unica Sostanza, Unica Divinità.
Noi tutti l’adoriamo dicendo:
SANTO DIO, che hai creato tutto mediante il Figlio
con il concorso dello Spirito Santo;
SANTO FORTE, per il quale abbiamo conosciuto il Padre
e lo Spirito Santo è venuto nel mondo;
SANTO IMMORTALE, Spirito Consolatore
che procedi dal Padre e riposi nel Figlio
TRINITA’ SANTA, gloria a Te

L’icona è ispirata al capolavoro dell’iconografo Andrej Rublëv (1360-!430. L’icona della SS:Trinita, o Trinità Angelica si rifà direttamente all’episodio della ospitalità di Abramo presso le Querce di Mamre (Gen.18, 1-10):

Poi il Signore apparve a lui alle Querce di Mamre, mentre egli sedeva all’ingresso della tenda nell’ora più calda del giorno. Egli alzò gli occhi e vide che tre uomini stavano in piedi presso di lui.
Appena li vide, corse loro incontro dall’ingresso della tenda e si prostrò fino a terra, dicendo: “Mio signore, se ho trovato grazia ai tuoi occhi, non passar oltre senza fermarti dal tuo servo. Si vada a prendere un pò di acqua, lavatevi i piedi e accomodatevi sotto l’albero. Permettete che vada a prendere un boccone di pane e rinfrancatevi il cuore; dopo, potrete proseguire, perché è ben per questo che voi siete passati dal vostro servo”.
Quelli dissero: “Fà pure come hai detto”.Allora Abramo andò in fretta nella tenda, da Sara, e disse: “Presto, tre staia di fior di farina, impastala e fanne focacce”. All’armento corse lui stesso, Abramo, prese un vitello tenero e buono e lo diede al servo, che si affrettò a prepararlo.Prese latte acido e latte fresco insieme con il vitello, che aveva preparato, e li porse a loro.
Così, mentr’egli stava in piedi presso di loro sotto l’albero, quelli mangiarono.
Poi gli dissero: “Dov’è Sara, tua moglie?”. Rispose: “E’ là nella tenda”.Il Signore riprese: “Tornerò da te fra un anno a questa data e allora Sara, tua moglie, avrà un figlio”.

Tra le diverse raffigurazione allusive alla Trinità, la chiesa orientale predilige la scena relativa all’ospitalità di Abramo. Nel rivolgersi ai tre misteriosi personaggi venuti a visitarlo, Abramo salta dall’uso del singolare a quello del plurale. E’ questo il motivo utilizzato dai padri della chiesa che li porterà a riconoscere nel particolare biblico l’annuncio del mistero trinitario. La presenza nell’icona di Abramo e Sara sta a significare la rivelazione di Dio nella storia dell’uomo.

L’icona della SS.Trinità è stata definita “l’icona delle icone” nel 1551 dal Concilio dei Cento Capitoli. E’ un capolavoro di rara profondità teologica, di bellezza incomparabile e di finissima ricchezza di simboli.

Rublëv seppe rappresentare la sintesi del più grande mistero della nostra fede, rivelandoci l’unità e al tempo stesso la distinzione delle persone divine. In questa icona il cerchio (eternità, perfezione) si impone come motivo dominante di tutta la composizione. Nel cerchio stanno perfettamente le tre figure angeliche che stanno ad indicare l’amore perfetto, senza inizio e senza fine.

Il triangolo, la cui base è il lato superiore del tavolo e il cui vertice posa nel capo dell’angelo centrale, è la figura semplice che mi dice tre in uno, uno in tre. Cerchio e triangolo non si vedono; proprio come Dio, che è presente eppure non lo vediamo. 

Madonna delle Grazie 

L’icona della “Madonna delle Grazie”, posta nella cappellina della nostra chiesa, si ispira fortemente a quella custodita sopra l’altare della chiesa antica del convento dei frati minori Cappuccini in San Giovanni Rotondo. Caratteristica di questa icona è il gesto del Bambino nell’atto di distribuire all’umanità, con le sue mani, le grazie celesti per mezzo della linfa del seno materno, le stesse grazie che alimentarono la sua divina umanità. Il piccolo Gesù porta al collo un ornamento di corallo. Questo “gioiello del mare” per le sue sembianze che ricordano l’albero della croce – il nuovo albero della vita – è, nell’iconografia cristiana, uno dei simboli della Passione di Gesù, sofferta e offerta a Dio Padre per il riscatto redentivo dell’umanità, porta che si apre sull’eternità.

San Pietro e San Paolo 

l primo Papa e l’apostolo delle genti. Uomini e carismi diversi uniti in un’unica festa che la liturgia celebra il 29 giugno, poiché, fin dalle origini, le comunità cristiane hanno identificato in queste due figure le radici stesse della Chiesa. Nella fedeltà a Cristo, fino a dare la vita. Di Simone (poi ribattezzato Pietro da Gesù stesso) i Vangeli, solitamente molto parchi nelle caratterizzazioni psicologiche, ci offrono un ritratto vivido. E’ irruento, sanguigno: parla e agisce d’impulso, al punto da meritarsi i rimproveri del Maestro. Ma è anche colui che, ispirato dallo Spirito Santo, intuisce prima degli altri la natura divina di Gesù: «Io credo Signore che tu sei il Cristo, il figlio del Dio vivente». Da qui la chiamata a una particolarissima missione, quella di guida e sostegno della comunità. «E io ti dico che sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le porte dell’inferno non prevarranno contro di essa. Ti darò le chiavi del regno dei cieli e tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli» . E’ questo stesso primato che la Chiesa cattolica riconosce nel Papa, i cui simboli, le chiavi e l’anello del pescatore, immediatamente rimandano alla figura dell’apostolo. Umanissimo nella sua fragilità, Pietro è, come gli altri discepoli, smarrito nel momento terribile della condanna e dell’agonia di Gesù. Ma più degli altri porta addosso un peso. «Non conosco quell’uomo»: con queste parole per tre volte rinnega pubblicamente Cristo, abbandonandolo di fatto al suo destino. Eppure, paradossalmente, proprio questo episodio gli consente di sperimentare, forse più di chiunque altro, l’abbraccio della misericordia. «Simone di Giovanni, mi ami tu più di costoro?» , gli domanda per tre volte il Risorto, rinnovando poi subito la chiamata a guidare il gregge dei fedeli «Pasci le mie pecorelle». Una chiamata cui, dopo la Pentecoste, l’apostolo consacra la vita, diventando un riferimento per i Cristiani a Gerusalemme, in Palestina, ad Antiochia, e operando miracoli nel nome di Gesù. Fin qui le fonti bibliche: il resto è tradizione. Varie testimonianze raccontano di un trasferimento a Roma. Nel cuore dell’impero il discepolo vive per alcuni anni, predica e coordina la comunità. Muore martire sotto Nerone, probabilmente intorno al 67 d.C. Molto diversa è la vicenda umana e spirituale di Paolo di Tarso , che, a differenza di Pietro, non ha modo di incontrare il Gesù storico lungo le strade della Palestina. Lo incontra invece in modo misterioso, dopo anni di feroci persecuzioni contro la Chiesa. Per una parte della sua vita Saulo (questo il suo nome prima della conversione) è un uomo inflessibile, spietato, e colpisce i Cristiani con una determinazione che sembra sconfinare nel fanatismo. Poi, improvvisamente, accade qualcosa. «Tutta la vita dell’Apostolo è segnata da quell’evento. È difficile per noi capirlo, perché, in realtà, Paolo stesso comprende solo al momento della morte che cosa abbia significato per lui quell’episodio» . E’ la cosiddetta folgorazione sulla via di Damasco. E’ quell’”incidente di percorso” che lo costringe a un cambio di prospettiva. E ad incamminarsi verso una vita nuova: inizia così il suo apostolato. Paolo comprende che il messaggio evangelico non si può limitare alle comunità giudaiche, ma ha una dimensione universale. Con lui la Chiesa si scopre a tutti gli effetti missionaria, aperta ai “gentili”, i pagani, i lontani. Uomo caparbio, infaticabile, di grande cultura, eccellente oratore, Paolo abbandona le sue sicurezze per mettersi costantemente in gioco, spinto da un’unica certezza: «per me vivere è Cristo», come scrive lui stesso nella Lettera ai Filippesi. I suoi viaggi lo portano dall’Arabia alla Grecia, dalla Turchia all’Italia. A Roma viene arrestato, ma per un certo tempo riesce, pur tra mille difficoltà, a predicare. Come Pietro muore martire, probabilmente intorno al 67 d.C. Le sue 13 lettere, inserite nel canone del Nuovo Testamento, sono un pilastro dottrinale del cristianesimo e un riferimento imprescindibile per i fedeli di tutte le epoche storiche e di tutti i continenti. (Lorenzo Montanaro) Nella loro collocazione in chiesa stanno quasi a indicare, con il loro sguardo rivolto ai dipinti della Natività, della Trinità Angelica e della Discesa agli Inferi-Resurrezione, i misteri fondamentali della fede cattolica: Unità e Trinità di Dio. Incarnazione, Passione, Morte e Risurrezione di Gesù Cristo.

Il mandylion 

Il mandylion (greco “μανδύλιον”, “panno, fazzoletto”) o immagine di Edessa era un telo, venerato dalle comunità cristiane orientali, sul quale era raffigurato il volto di Gesù. L’immagine era ritenuta di origine miracolosa ed era quindi detta acheropita, cioè “non fatta da mano umana”.
In questa icona, vediamo rappresentato solo il Volto, senza collo, di fronte: il Cristo ci invita a rivolgerci a lui dandogli del “Tu”, ci invita al dialogo, a non avere paura: la “frontalità” è sempre offerta e disponibilità al dialogo. Il “profilo”, al contrario, non dialoga, si difende, nasconde parte del volto. Il Volto Santo di Gesù è celebrato nella Chiesa Cattolica il 16 Agosto, per via delle origini bizantine della celebrazione, infatti il 16 agosto 944, a Costantinopoli si celebrò per la prima volta la festa della traslazione del Santo Volto, allorché, secondo le cronache, venne portato in processione nella capitale imperiale il cosiddetto Mandylion. Il mandylion era conservato inizialmente a Edessa di Mesopotamia. Nel X secolo fu traslato a Costantinopoli. Secondo la tradizione, il telo con l’immagine di Cristo era stato rinvenuto in una nicchia dentro un muro sovrastante una porta della città di Edessa. Alcuni danno credito a questa tradizione ritenendo che il mandylion fosse stato nascosto secoli prima a causa delle persecuzioni e poi dimenticato; il ritrovamento potrebbe essere avvenuto durante i lavori di ricostruzione seguiti alla catastrofica inondazione del Daisan, il corso d’acqua che attraversa Edessa, avvenuta nel 525. Jack Markwardt ha invece avanzato l’ipotesi che il mandylion (che egli identifica con la Sindone) sia giunto ad Edessa soltanto nel 540, il che spiegherebbe l’assenza di notizie precedenti: prima di tale data sarebbe stato custodito ad Antiochia. Il trasporto sarebbe avvenuto quando la città, quattro anni prima di Edessa, fu attaccata da Cosroe. Quando successivamente Edessa venne occupata dai musulmani, il mandylion continuò ad esservi conservato per qualche tempo. Tuttavia si iniziò a temere per la sua sorte; quindi nel 944 il generale bizantino Giovanni Curcuas, in cambio di 200 prigionieri musulmani, lo recuperò per portarlo a Costantinopoli. Qui esso arrivò accompagnato da una folla in tripudio e collocato con una cerimonia fastosa dal basileus Costantino Porfirogenito nella chiesa della Vergine (Theotokos) di Pharos: il suo arrivo viene ricordato in una festa liturgica anniversaria, il 16 agosto. Più tardi il mandylion fu spostato alle Blacherne, vicinissima quindi alla residenza imperiale, a sottolineare la speciale venerazione riservatagli dagli Imperatori. Nel 1204, quando la Quarta crociata si concluse con l’assedio e il saccheggio di Costantinopoli, il mandylion scomparve e se ne persero le tracce.
Il giornalista Ian Wilson ha avanzato l’ipotesi che il mandylion fosse la Sindone di Torino; questa ipotesi è tuttora seguita dalla maggioranza degli studiosi, in quanto essa spiegherebbe l’assenza di documenti storici che si riferiscano alla Sindone nei secoli precedenti. Un problema riguardo a questa ipotesi è il fatto che le fonti descrivono il mandylion come un fazzoletto sul quale era impresso il solo volto di Gesù, e non l’intero corpo. La soluzione proposta da Wilson è che la Sindone fosse stata ripiegata e inserita in un reliquiario in modo da mostrare solo quella parte dell’immagine: in effetti se si piega la Sindone tre volte nel senso della larghezza, in modo da formare otto strati sovrapposti, rimane visibile una sezione nella quale l’immagine del volto è in posizione centrale. Secondo gli studi di Wilson, i segni di queste piegature sono visibili nelle fotografie della Sindone ai raggi X.
Coerentemente con questa teoria, alcune antiche raffigurazioni del mandylion mostrano un reliquiario le cui dimensioni corrispondono a quelle della Sindone piegata in otto (circa 110×55 cm), con un’apertura circolare al centro attraverso la quale si vede il volto di Gesù, mentre tutto il resto dell’immagine rimane nascosto Gli Atti di Taddeo, un testo del VI secolo, riferiscono la leggenda secondo cui il mandylion sarebbe un telo su cui Gesù impresse miracolosamente il proprio volto, e si riferiscono a esso con la singolare espressione ràkos tetràdiplon, cioè “piegato quattro volte doppio”. Nel 944 l’arcidiacono Gregorio afferma che l’immagine del mandylion non reca tracce di colori artificiali, ma è solo “splendore” ed è stata impressa dalle gocce di sudore di Gesù. Il termine “splendore” si può accostare alla particolare natura dell’immagine sindonica, che risulta da un ingiallimento delle fibre del lino, mentre i due mandylion di Genova e Roma, invece, sono dipinti a colori. Egli inoltre menziona le “gocce di sangue sgorgate dal suo stesso fianco”, dal che pare potersi dedurre che l’immagine si estendeva almeno fino al costato. Emanuela Marinelli ipotizza, quindi, che in quell’occasione il reliquiario fosse stato aperto e si fosse scoperta l’immagine intera. Wilson identifica quindi il mandylion con la “sindone” (sydoine nel testo originale) che Roberto di Clary, cronista della Quarta crociata, vide alle Blacherne (dove, come si è detto, il mandylion era stato trasferito). Clary riferisce che su di essa era visibile la figura di Gesù, ma che era poi scomparsa durante il saccheggio della città ad opera dei crociati (13-15 aprile 1204): «C’era un altro dei monasteri che si chiamava Mia Signora Santa Maria di Blakerne, dove la sindone, dove Nostro Signore fu avvolto, si trovava, che ciascun venerdì si drizzava tutta dritta, così che vi si poteva ben vedere la figura di Nostro Signore. E nessuno sa, né greco né francese, che cosa a questa sindone accadde quando la città fu presa» (Roberto di Clary, citato in Luigi Garlaschelli, Processo alla Sindone, p.120) Se la sindone vista da Roberto di Clary è la stessa che oggi si trova a Torino, è logico supporre che qualcuno dei crociati l’abbia portata con sé in Occidente. Nel XIV secolo il cronista bizantino Niceforo Callisto scrisse che la statura di Gesù era stata misurata dai “tecnici” in 183 cm: appare logico supporre che questa misura fosse stata presa sulla sindone menzionata da Roberto di Clary. La statura di 183 cm è esattamente la stessa che in seguito i Savoia misurarono sulla Sindone di Torino: anche questa coincidenza sembrerebbe corroborare l’ipotesi dell’identità dei due oggetti.